Una buona scuola

Creato il 05 febbraio 2015 da Povna @povna

Cartofotocopisteria di viale dei Ciliegi, di fronte a casa della ‘povna. La mano è già sulla maniglia di ingresso, quando la ‘povna viene superata in corsa da una ragazza evidentemente in ansia, avrà sì e no diciassette anni.
“Ho bisogno di quattro copie fronte retro di questo testo, subito” – prorompe. E poi aggiunge, dopo una pausa:
“Se possibile in formato ridotto, del 40%”.
“Ma così non si leggerà” – prova a obiettare il negoziante.
Ma mentre lei risponde un goffo: “No, si leggerà benissimo”, la ‘povna ha già drizzato occhi e orecchie.
Uno sguardo noncurante buttato là le regala infatti la conferma: in previsione di una imminente verifica, la giovane studentessa è lì, proprio alla vigilia, a costruire per sé e qualche compagno i bigliettini.
Ultimata la richiesta, paga e esce. Ed è il turno della ‘povna.
“Lei pensa a come copiarla, io a come fare in modo che non ci riesca” – nota con un sorriso – “due copie fronte retro, per favore, di questi due fogli” – e porge la pennetta con la verifica di storia.
Il baffuto cartolaio (che non aveva capito, o forse fatto finta) ha un moto di stupore: “Non sarà proprio una sua alunna”. Ma la ‘povna lo rassicura, sempre ridendo: sono i vantaggi di separare con 50 km di binari e di distanza casa e scuola.
L’incidente finisce qui, senza alcun seguito. Ma la ‘povna, dopo, ci ripensa. E – mentre decide che cosa proporre per il venerdì del libro, in tutta fretta – l’occasione le sembra quella per parlare di Richard Yates e di Una buona scuola.

Pubblicato nel 1978 (in Italia qualche anno fa, dalla meritoria minimum fax), il romanzo si ascrive al genere school story propriamente detto e, ambientato alla vigilia della seconda guerra, racconta le vicende di un gruppo di alunni e insegnanti in un college americano del New England. Per quanto il ruolo di protagonista appartenga senza dubbio a William Grove (se non altro per i tratti esplicitamente autobiografici), la storia può comunque definirsi corale, in senso ampio, perché il punto di vista (quasi sempre onnisciente, con la significativa eccezione di inizio e fine del romanzo, dove la narrazione diventa invece in prima persona, autodiegetica, obbligando il lettore a prendere prima coscienza, poi distanza, quindi di nuovo coscienza del patto semi-autobiografico) arriva a coprire ora questa, ora l’altra delle dramatis personae. Yates sa rendere magistralmente l’atmosfera come di sospensione che, tipica in generale delle scuole chiuse (come sono quelle a organizzazione anglosassone), si fa qui quasi convitato di pietra, allusione al bagno di realtà, brutale, in ogni senso (con la chiamata alle armi, e la prospettiva bellica), che attende tutti i giovanissimi allievi fuori dal dorato recinto – con ciò sottolineando insensibilmente quel ruolo, da superamento della linea d’ombra (che separa l’età eterna dell’adolescenza dall’era della responsabilità degli uomini fatti), che sempre, nel mondo occidentale, piaccia o non piaccia, è svolto dal sistema dell’istruzione. La scuola è infatti un luogo, ricorda Yates, dove si entra ancora “incapaci di intendere” e si esce cittadini (che votano, scelgono, si arruolano, vengono mandati a combattere, e morire per la patria, anche): ed è questa caratteristica a rendere, a prescindere dalle sue oggettive qualità, un qualunque sistema educativo “buona scuola”.
Il resto è storia di aneddoti, con tante delle costanti del genere: il collegio maschile, gli scherzi, il nonnismo, lo sport, il giornalino scolastico – raccontata con piglio casuale, eppure sempre acutissimo. Un carattere che rende il romanzo minore (come questo è, indubbiamente) di uno scrittore viceversa grande, una molto piacevole lettura.