Valle San Bartolomeo - Estate 1060
Era una estate caldissima. L'aria era ferma e spessa; sentivi soltanto voli leggeri di libellule che cercavano di muovere l'aria col battito d'ali, posandosi appena sulle foglie sottili e già quasi secche dei canneti lungo il canale. Sono passati così tanti anni che il ricordo un poco svanisce, come i contorni lontani delle colline quando la foschia dell'afa ne ammorbidisce le linee nette, mostrando soltanto un leggero tremolio di passione. Eravamo quattro ragazzi attorno ai quindici anni alle prese con la gomma afflosciata di una bicicletta, dall'unico meccanico del paese che sapeva aggiustare tutto nel suo stanzone sulla strada al termine della discesa, dai freni delle bici dei bambini, alle valvole dei Landini a testa calda. D'altra parte allora non c'erano centraline elettroniche da prendere e buttare, ma tutto si aggiustava alla meglio. Mentre cercavamo a fatica di gonfiare la camera d'aria alla ricerca del minuscolo buchino, facendola scorrere in una catinella d'acqua, un rombo scoppiettante segnalò l'arrivo di un altro ragazzo, di qualche anno più vecchio di noi. Una 125 quasi nuova, forse una Guzzi, allora le giapponesi erano ancora di là da venire, ma già messa a punto, che era nelle sue mani di James Dean da paese da qualche giorno, durante i quali continuava a scorrazzare tra le discese della Falamera e del Dazio attraversando la piazza a tutta velocità, tra la disapprovazione dei quattro vecchi in sosta sulle panchine. Certo non era la idolatrata moto Morini 250, ma era gà un bolide di tutto rispetto.
Issò la moto sul suo trespolo e, da buon cliente abituale, lanciò rivolto al meccanico, un: "Torre, prendo la chiave del 13" e penetrò nello stanzone coperto di unto e di ferri, come uno che si muove ormai come a casa sua. Il vecchio, che era dietro nell'orto, neanche gli rispose. Noi smettemmo subito le nostre misere operazioni di ricerca e rimanemmo a guardare affascinati da quel prodigio di meccanica, un simbolo quasi futurista della velocità e del mondo di domani. Uscì dall'officina con gesti sicuri e subito si mise ginocchioni davanti alla moto allentando le viti della marmitta. Anche noi, digiuni di meccanica fine, comprendemmo subito le sue intenzioni. Togliere la marmitta per maggiorare se possibile la velocità e soprattutto il rumore di quel cilindro impertinente ma vero, così diverso dalla cartolina che fissavamo sempre con la molletta alla ruota posteriore della bici, perché i raggi producessero quella vibrazione che simulava lo scoppiettare di un bramato motorino che difficilmente avremmo mai potuto avere. Compiuta l'operazione, dopo aver lasciato a terra il pezzo momentaneamente inutile, si tolse dalle mani il grasso che aveva raccolto attorno al motore, in uno straccio già abbondantemente unto e guardò il mezzo dall'alto con malcelata soddisfazione. Noi stavamo ad ascoltare le sue spiegazioni tecniche senza ribattere, di certo privi della competenza necessaria, ma pronti spettatori ammirati per quella prova di potenza e di coraggio. Poi salì in sella e mise in moto.
Vedemmo solo per un'attimo la sagoma del pilota steso sul serbatoio e la sua testa di biondino impertinente china sul manubrio. I caschi non li avevano ancora inventati allora. Fece una leggera piega al crocicchio della Cerca a pochi decine di metri dalla curva appena accennata dove eravamo noi e dopo un istante sfrecciò con l'acceleratore al massimo davanti all'officina. Piegammo la testa all'unisono come gli spettatori di una partita di tennis al passare della pallina. Dopo cinquanta metri circa la strada piega a destra in una curva pronunciata verso Alessandria. Non rallentò neppure per un istante. Si vide subito che non ce l'avrebbe fatta. Una millecento arrivava lenta dalla direzione opposta e si trovò proprio nello stesso momento al centro della curva stessa. La moto tentò un piccola inclinazione, poi centrò in pieno il frontale dell'auto, immobilizzandola sull'asfalto. In mezzo a tanti ricordi sfumati, nessuno di noi ricorda qual'era l'ora esatta, se l'officina avesse una porta o meno o la stessa faccia del vecchio meccanico, abbiamo ancora negli occhi, perfettamente nitido, come lo avessimo riavvolto e rivisto mille volte, il film di quel corpo che volava, volava nell'aria con una traiettoria infinita che sembrava non voler finire mai in, un ralenty implacabile che sembrò durare minuti, fino a che non cadde con un tonfo al di là della nostra vista nel fosso profondo al lato della strada.
Corremmo tutti verso il luogo dell'incidente, dove, a contrasto stridente con il frastuono fortissimo di pochi istanti prima, regnava un silenzio innaturale e stranito. Il conducente dell'auto era già fuori tenendosi la testa con una mano. Dal cofano dell'auto accartocciato usciva il fumo bianco del vapore del radiatore. Della moto emergeva una ruota tra i paracarri di pietra. Senza fiato arrivammo al fossato. In fondo, tra le erbacce e un rivolo di acqua sporca, il nostro amico stava là, immobile in una posizione innaturale. Da un braccio spezzato e sanguinante spuntava un frammento di osso, la testa piegata all'indietro; dalla bocca un lamentarsi fioco come un vagito. L'autoambulanza arrivò dopo una mezz'oretta, ma tutto il resto rimane oggi un'ombra ovattata nel racconto di quel pomeriggio di più di cinquanta anni fa. Un film che abbiamo ancora scolpito in testa e che raccontiamo tutti allo stesso modo, quando ci si rincontra dopo tutti questi anni, come ieri in uno di quei pranzi della leva che ancora si fanno nei paesi. Chi ricorda la vecchia maestra, chi i pomeriggi danzanti alla SOMS. Noi abbiamo sempre in testa quel volo di bambololotto rotto, di quel gabbiano dalle ali già spezzate che compie la sua lunghissima parabola nell'aria ferma di una caldissima estate. Io non mi sono mai comprata una moto. Beh, non ci crederete, ma quel ragazzo ce l'ha fatta ed è vivo ancora adesso e mi dicono che, anche se si lamenta dei dolori quando cambia il tempo, sta benissimo.
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