La seconda casa era molto più piccola della prima, meno luminosa della prima. Ma era solo nostra. E c’erano sempre le telefonate o i messaggi verso le 6 del pomeriggio: “Che mangiamo?” Che è la frase che racchiude tutto noi dentro, che racchiude le persone che si amano.
La terza casa è quella della certezza perché se certe cose alle persone funzionano in 35 metri quadri con due finestre piccole e un divano che era cinema, soggiorno, studio, vorrà pur dire qualcosa.
Allora abbiamo impacchettato tutto, due anni di vita, 35 metri quadri, in scatoloni che profumavano di detersivo. Due anni di vita, 35 metri quadri in tre sabati di novembre, pieni di pioggia e umido e quanto più buio e polvere entrava nella casa vecchia, tanto più luce entrava in quella nuova nonostante la pioggia e il grigio tufo di Napoli. Niente di simbolico e tutto di simbolico.
Libri ordinati per autore, scale in legno che scricchiolano sotto i piedi. Un divano che è solo divano ma che se vogliamo può essere anche studio, cinema, tutto e anche niente, tanto ci sono le poltrone messe davanti al balcone a guardare la strada e il sole brillantissimo che viene dal mare anche se il mare non si vede, ma brilla come brillerebbe sulla sua superficie. Le poltrone vicino al balcone perché siamo fiori che hanno bisogno di sole attraverso il vetro.
Resto seduta al balcone a guardare il vento che muove i fili dei panni e ad ascoltare il rumore del trolley dei fuorisede che tornano la domenica sera. Un balcone con le lucine di natale accese da guardare dalla strada quando ritorno la sera. Il silenzio e poi le canzoni e poi di nuovo le parole e poi il vociare di sette persone sedute attorno al tavolo in una cucina inondata di luce.
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