Oggi, anche a fronte di un'analisi affrettata dei volumi e dei valori, viene naturale chiedersi se abbia ancora senso questa denominazione. La tabella che pubblico in calce, dedotta dai rilevamenti ufficiali dell'ente di controllo, evidenzia un trend verso il basso ormai irreversibile. Poco meno di 300 mila bottiglie destinate al mercato locale entry level, che presumibilmente generano un valore franco cantina non superiore ai 400 - 450 mila euro. Una produzione se non erro tutta concentrata nelle mani di un solo produttore (Cavit), ma potrei sbagliarmi. Sono 300 mila bottiglie vendute nel circuito della GDO locale e dei bar di provincia generalmente a meno di tre euro, confezionate in bottiglie da litro e tappo vite. E' il classico bicchiere di " vino normale" o " agricolo" o " proletario", come si sente spesso riecheggiare nelle osterie di periferia. Quello che alla mescita costa meno di tutti o quasi: fra i 70 e gli 80 centesimi di euro a bicchiere.
Forse non c'è futuro per questa denominazione. Ma un passato ce lo ha avuto. Ed è anche, a mio avviso, un passato onesto e tutto sommato coraggioso. Nata nel 1974, la denominazione Casteller fu il prodotto di una scelta decisamente territorialista alla francese, che evitò lo sciagurato riferimento al varietalismo di scuola tedesca. Confermò la scelta che il Trentino (e l'Alto Adige) qualche anno prima avevano già fatto con la contesa (e litigata) Caldaro, e superò l'equivoco, secondo me nefasto, che si era compiuto con le altre due denominazioni: la Teroldego Rotaliano e la Trentino con le sue mille declinazioni tipologiche. Entrambe viziate da un ibridismo culturale che faceva, e fa, oscillare il vino come un pendolo perpetuo fra territorio e varietà.
Con la Denominazione Casteller questo errore non fu compiuto e la scelta fu decisamente territorialista. Poeticamente dedicato, questo vino, ad uno dei più incantevoli e pregiati luoghi del Trentino viticolo: il poggio di Casteller, alle porte di Trento, lungo al sinistra del fiume Adige.
Un blend di uve base Merlot, miscelate con le uve più diffuse di allora: Ambrusche, Schiave, Teroldego e Lagrein. Un vino che nasceva anche, credo, per dare uno sbocco commerciale e sostenibile a uve che allora definivano per intero il profilo vinicolo trentino. Poi i tempi sono cambiati, la base ampelografica trentina subì una rivoluzione che a tratti assomigliò al sogno polpottista dell'uomo (vitigno) nuovo. Arrivò la mitologia dorata del Pinot Grigio e tutto cambiò. Solo la Casteller è rimasta lì, con i suoi 50/60 ettari, sparsi per ogni dove in Trentino (fra climi più asciutti e climi più umidi, fra terreni argillosi e terreni basaltici, privata fin dall'inizio di una seria e rigorosa zonazione), a fare da ultima spiaggia di ricaduta delle uve di scarto per 300 mila bottiglie di un modesto vino entry level. Eppure, nei suoi primi anni di vita questo vino piacque molto, almeno ai trentini: l'annata 1977 di Cavit fu premiata all'XI concorso della Confraternita della vite e del vino.
Poteva avere altri destini questa denominazione territorialista, se il suo disciplinare fosse stato più rigoroso, meno pasticciato, meno generico nella definizione delle zone e dei terreni di produzione. Poteva diventare una strada maestra per alcune uve autoctone, se il vigneto trentino non avesse subito la trasformazione mercantilistica che ha subito. Non è andata. Sono rimaste queste 300 mila bottiglie di vino semplice, poco alcolico, per niente strutturato, leggerino, vinoso anche troppo, che, però, a tavola o al bar, durante una partita di briscola, si può bere ancora. Che io ogni tanto bevo. Ancora.
UveLa denominazione prende il nome dalla località "Casteller", mirabile collina vitata a sud di Trento,
dove la tradizione vuole che sia nata questa tipologia di vino, il cui apprezzamento a fatto si che la sua produzione si sia estesa all'attuale territorio delimitato. Il suo nome appare per la prima volta nelle Cronache del Concilio di Trento scritte dal Michelangelo Mariani nel 1673.
DoveLa denominazione di origine controllata "Casteller" è riservata al vino ottenuto dalle uve
provenienti dai vitigni aventi, nell'ambito aziendale, la seguente composizione ampelografica:
Merlot, minimo 50%; Schiava grossa, Schiava gentile, Lambrusco a foglia frastagliata (Enantio), Lagrein e Teroldego da soli o congiuntamente, per la differenza.
ReseLa zona di produzione delle uve destinate alla produzione del vino a denominazione di origine
controllata "Casteller", comprende il territorio amministrativo dei comuni di: Ala, Albiano, Aldeno,Arco, Avio, Besenello, Brentonico, Calavino, Calliano, Cavedine, Cembra, Cimone, Civezzano, Drena, Dro, Faedo, Faver, Garniga, Giovo, Isera, Lasino, Lavis, Lisignago, Mezzocorona, Mezzolombardo, Mori, Nago-Torbole, Nave San Rocco, Nogaredo, Nomi, Padergnone, Pergine, Pomarolo, Riva del Garda, Roverè della Luna, Rovereto, San Michele all'Adige, Segonzano, Tenna, Tenno, Ton, Trambileno, Trento, Vezzano, Villalagarina, Volano, Zambana.
CaratteristicheLa resa massima di uva ammessa per la produzione del vino "Casteller" è stabilita in 15 tonnellate per ettaro in coltura specializzata. Su detto limite, di resa di uva ad ettaro è ammessa una tolleranza massima del 20% non avente diritto alla denominazione di origine controllata. L'eventuale superamento del limite del 20% sopraindicato comporta la rinuncia alla denominazione di origine controllata per l'intera partita.
La resa delle uve in vino non deve essere superiore al 70%. L'eventuale supero di resa, consentito
nella misura massima del 5% non avrà diritto alla D.O.C.
Il vino a denominazione di origine controllata "Casteller" all'atto dell'immissione al consumo deve
rispondere alle seguenti caratteristiche:
colore : rosso rubino, più o meno intenso;
odore: vinoso, gradevole;
sapore: asciutto, armonico e caratteristico;
titolo alcolometrico volumico totale minimo: 11,00% vol;
acidità totale minima: 4,5 g/l;estratto non riduttore minimo: 18,0 g/l.
Nacque a La Fratta nella seconda metà del XIII secolo, oggi nel comune di Sinalunga (SI). Figlio del conte ghibellino Tacco di Ugolino e di una Tolomei e fratello di Turino, era un rampollo della nobile famiglia Cacciaconti Monacheschi Pecorai, e insieme con il padre, il fratello e uno zio commetteva furti e rapine, nonostante la caccia che gli veniva data dalla Repubblica di Siena. Una volta catturati, i membri maggiorenni della banda vennero giustiziati nella Piazza del Campo di Siena, mentre Ghino e il fratello si salvarono grazie alla loro minore età. Rifugiatosi a Radicofani (SI), una rocca sulla Via Cassia, al confine tra la Repubblica di Siena e lo Stato Pontificio, Ghino continuò la sua carriera di bandito, ma in forma di "gentiluomo", lasciando ai malcapitati sempre qualcosa di cui vivere. Boccaccio, infatti, lo dipinge come brigante buono nel suo Decameron parlando del sequestro dell'abate di Cluny, nella II novella del X giorno: Ghino di Tacco piglia l'abate di Clignì e medicalo del male dello stomaco e poi il lascia quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa e fallo friere dello Spedale. Dante, invece, gli concede un posto tra i personaggi citati nel sesto canto del Purgatorio della sua Divina Commedia, quando parla del giurista Benincasa da Laterina (l'Aretin), giureconsulto a Bologna, poi giudice del podestà di Siena, ucciso da un fiero Ghino di Tacco.