Il capitale, la trasmissione d’arte e cultura scritta e condotta da Philippe Daverio, su Rai3, indaga sul rapporto tra uomo e creatività del grande Michelangelo. Guardare le sue opere, vuol dire approfondire il pensiero umano che l’artista ha portato ai massimi livelli.
Una tomba. Trent’anni passati tra la scultura e una tomba. Con un Mosè potentissimo che si passa con un vezzo le dita tra la barba fluenta. La massima esaltazione della muscolatura maschile. Stiamo parlando del sepolcro di papa Giulio II, l’ultima opera giovanile di Michelangelo. Un progetto ridotto, ridimensionato, rispetto all’originale, infatti le difficoltà e le delusioni ad essa legate pesarono su di lui per quarant’anni. E’ la nemesi dei vincoli. Un Mosè che ha commosso tutti, anche il regista che porta il suo nome: Antonioni, che gli ha dedicato un documentario dal titolo: Lo sguardo di Michelengelo, nel quale il regista si siede fronte al Mosè e racconta di quel capolavoro creato da quell’artista del Cinquecento che scavava il marmo fino a trovare l’ultimo strato, toglieva, toglieva, fino ad arrivare dove il marmo diventa trasparente.
Una tomba che pone un quesito: perché ci volle così tanto tempo per finirla? Un progetto faraonico che richiedeva senz’altro molto tempo, perchè nel pensiero di Michelangelo doveva essere il monumento eretto alla scultura che è la regina delle arti. Roma era una città di sculturi che ripetevano i canoni dell’arte classica e a Roma per essere considerato un artista si doveva essere scultori. Dunque per Michelangelo il sepolcro del Papa doveva essere l’apoteosi della scultura, il committente invece voleva semplicemente una scultura normale, per farsi ricordare. Uno scontro ideologico, una battaglia tra due caratteri forti, che terminerà con un’opera incompituta nella realizzazione. Ma per il creatore di forme nuove che furono ben presto mondiali, veggente nei campi dello spirito con una profondità che nessun artista italiano ebbe prima o dopo di lui, l’idea non è scindibile dal progetto. E ci credette profondamente.
Ed è proprio la scultura che lo rende noto a tutti. All’età di 22 anni scolpisce la Pietà. Un’impronta di dolore nel raccogliemento della dolcezza materna. Il giovane Michelangelo coordina il tema classico rivisiatandolo totalmente. Da qualsiasi angolazione la si osservi si ha la sensazione di una composizione vivente e non imprigionata nel marmo. Un assoluto equilibrio di bellezza fisica e spirituale. La vergine tiene in grembo il Cristo come se fosse un bambino addormentato ed è più giovane del figlio. Immagine della perennità della purezza verginale, antecedente all’essere donna. Un’idea di purezza che travolge il tempo cristallizzato nella morte del figlio.
L’opera successiva è il David, un’opera prestigiosa per un artista di soli 26 anni.Un enorme blocco di marmo difettoso che giaceva, in attesa, delle mani di Michelangelo che lo estarrà dall’informe. L’artista metterà mano nell’inerme e ne estrarrà la forma. Un tutto tondo visibile nello spazio stando dentro allo spazio. Come Dio creò la prima scultura, l’uomo, così Michelangelo creò il corpo del David. Un corpo che innova il canone della bellezza maschile rinascimentale. Un corpo atletico al culmine della forza giovanile espresso da forme nate da uno studio attento dei particolari anatomici, come la torsione del collo attraversato da una vena e dalla struttura dei tendini, la tensione muscolare delle gambe; contratta quella di destra su cui si appoggia il peso, distesa quella di sinistra, che si allunga per il movimento, e la perfetta muscolatura del torso. Una statua greca in un tempio fiorentino.
In quest’opera Michelangelo deve dimostrare l’eccellenza assoluta della sua mano. E ci riesce, ma, tutto questo si conclude con la Cappella Sistina, dove Michelengelo deve diventare un pittore. Una nuova sfida, la superficie piana. Dopo, tutte le sue sculture saranno dei non finiti, in una ricerca artistica che durerà fino alla morte, dentro quel che lui stesso definiva: “l’arte che viene creando per via di levare, piuttosto che di porre”.