È il 1985, 21 novembre. Entro nell’aula magna dell’Università di Pisa per discutere la mia tesi su “Il Signore degli Anelli.”
Socialfobica come sono, non voglio nessuno ad assistere. Ci sono tre gatti, più mio fratello che, allora, ha 11 anni. Mia madre resta fuori, mio padre non c’è, è già morto. Sono ansiosa ma so che la mia media è buona, ho 109,36.
La commissione è schierata.
Il mio relatore. Ogni volta che mi vede, dice: “Tanto con lei faccio presto” e fa passare avanti quella più figa.
La controrelatrice. Non ha nemmeno letto il libro ma, spiega, “lo ha letto suo marito.”
Una serie di galline che non conosco e non mi ascoltano mentre parlo, chiacchierano fra loro.
Discuto la tesi. Logorata, nervosa, tesa, ma la discuto. Tutto sembra a posto, ce l’ho fatta.
Esco, rientro.
“La commissione la nomina dottore in lingue e letterature straniere con punti 105.”
Il sorriso mi si accartoccia sulle labbra,
mi si ghiaccia il sudore addosso, mi stringo nella giacca verde come me, impallidisco - mi dicono - al punto che temono un mio svenimento. L’applauso si blocca, si leva un brusio costernato.
“Perchè…” balbetto, “quanto ho di media?”
“100, non è contenta, le abbiamo dato 5 punti?”
Un filo di voce: “Sì, grazie…” Esco dall’aula. Penso che, al solito, sono io che ho sbagliato a fare i calcoli.
Interviene mia madre, per la quale l’aritmetica non è mai stata un’opinione, chiede di vedere i miei voti, mi richiama indietro. Mi mostrano un libretto che non è il mio, con voti bassi, che non sono i miei. Ridono. La mia laurea, la mia festa, diventa un mercato, dove si discute il prezzo di qualcosa che per me non ha più valore. Se fossi davvero brava, penso, se mi fossi impegnata di più, questo non sarebbe successo.
Poi non ridono più, scoprono che hanno sbagliato a spillare il foglio, hanno dato i miei voti ad un’altra, una che, guarda caso, alle feste balla stretta stretta col mio professore.
Mi danno 110, senza lode . Le galline che non hanno ascoltato dicono che non la merito. Me ne vado a testa bassa. Mi arrabbio con mia madre perchè ha preteso quello che mi spettava. Io non voglio niente, solo andare a casa. Senza fiori, senza nulla. Provo rabbia, schifo, vergogna, umiliazione, sento in bocca un sapore di merda che non se ne è più andato e che riemerge a contatto con certe persone, certi ambienti, certi psudointellettuali che si vantano di non saper cambiare nemmeno una lampadina bruciata.
Non ritiro neppure il diploma di laurea, non vado più a Pisa. Merda per merda, meglio vendere la carta igienica, almeno è un lavoro socialmente utile.