Una folle corsa

Creato il 22 gennaio 2013 da Pioggiadinote

Il fatto che quell’uomo cercò davvero di uccidermi è ben presente nella mia memoria, nitido come ogni attimo di quei lunghi minuti di corsa sull’autostrada. E concentrando proprio lì il pensiero, voleva davvero uccidermi,  si fa viva anche quella stessa sensazione di pericolo imminente che accelera i battiti e fa sudare freddo e tremare le estremità.

Tutto cominciò da un gestaccio, uno di quelli di cui si servono gli automobilisti per far conoscere la propria opinione ai loro simili i quali, chiusi nelle proprie auto, non possono riuscire a sentire gli improperi pronunciati a voce. Non sono mai stata avvezza ai gestacci, anzi, ma ero esasperata e già leggermente spaventata dai fari lampeggianti del furgone nero che sopraggiungeva ad alta velocità e non mi lasciava il tempo di superare l’altra automobile: più veloce di così non potevo andare, con la mia piccola utilitaria.

L’uomo alla guida del furgone nero non la prese bene, l’idea del gestaccio, che comunque non era stata pensata, ma mi era venuta lì per lì. Lo intuii dagli insulti che indovinavo nel suo labiale, mentre mi superava appena riuscii a rientrare sulla destra. Non la prese affatto bene. Ecco ciò che accadde: improvvisamente, deve non aver più sentito la necessità della fretta. L’urgenza era un’altra: farmela pagare. Sbandando, alla sua velocità, virò quindi sulla mia corsia, davanti a me, e subito dopo frenò violentemente, all’ improvviso. Non potrò mai dimenticare il portellone nero farsi vicinissimo inesorabile ai miei occhi. Mi salvarono i miei riflessi, ancora funzionanti nonostante stessi già tremando: riuscii a rallentare a sufficienza per sterzare a sinistra, nella corsia di sorpasso per fortuna sgombra in quel momento. Mi toccò dunque superarlo, il furgone nero, molto più grosso e pesante della mia auto, rientrai e mi ritrovai davanti, separata da una terza vettura. Tremante, invocavo la comparsa di un’area di servizio dove cercare aiuto, la quale però non comparve, in quei chilometri di fuga. Invece, purtroppo, il furgone nero non volle ancora demordere, superò l’altra auto e si piantò dietro alla mia. Per chilometri, sforzandomi di mantenere la calma, mantenni la mia velocità e la mia traiettoria, ostentai una sorta di indifferenza, di placidità ritrovata (con  il cuore in subbuglio) mentre sbirciavo nello specchietto l’uomo alla guida del furgone che imprecava e gesticolava e temevo il peggio, temevo un precipitare delle sue intenzioni aggressive.

Ci rinunciò, a proseguire nella sua foga criminale. Sempre imprecando alla mia volta, finalmente mi superò e riprese la sua corsa.

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