Aleksandr Solženicyn (1918 – 2008) vinse nel 1970 il Premio Nobel che però non ritirò per il timore che le autorità sovietiche non gli permettessero di rientrare nel suo Paese. Oppositore indomito del regime, passò molti anni nei Gulag. Le sue opere più note sono Una giornata di Ivan Denisovič e Arcipelago Gulag.
“Come sempre, alle cinque del mattino, suonarono la sveglia percuotendo con un martello un pezzo di rotaia appeso vicino alla baracca del comando. Il suono intermittente attraversò, debole, i vetri, coperti di due dita di ghiaccio e presto si spense: faceva freddo, e la guardia non aveva voglia di battere a lungo”.
Così si apre il lungo racconto. Il protagonista è rinchiuso in un campo di lavoro staliniano e lotta quotidianamente contro il freddo, la fame, gli abusi dei carcerieri. Come è finito qui? Nel 1941, in guerra, è stato preso dai tedeschi che avevano invaso l’Unione Sovietica. Riuscito ben presto a scappare, era tornato nelle proprie linee. Qui però aveva subito il volto diffidente e cinico del potere sovietico; ogni prigioniero era sospettato di essersi arreso volontariamente al nemico. Ivan è condannato a dieci anni per alto tradimento. I reclusi del campo devono rispettare dure regole e sono costretti a lavorare quasi ogni giorno, salvo che non ci siano più di quaranta gradi sotto zero. Le fatiche sono immani ma Ivan e gli altri per sopravvivere devono avere sempre una buona reattività fisica e mentale. Ci si salva se si riesce a strappare con l’astuzia una razione in più, se si protegge il proprio cibo dalle mani fameliche dei compagni, se si è pronti a fare qualche piccolo favore a chi in cambio può dare una sigaretta o qualche pezzetto di pane. Ci vuole sempre destrezza per non subire punizioni perché il regime del campo è severo, burocratico, infido; ci sono guardie, capiscorta, detenuti con qualche mansione di responsabilità, delatori. Denisovič sa già che dopo i dieci anni scontati verrà ancora trattenuto in qualche modo, senza una specifica ragione. Non c’è speranza, bisogna solo vivere il presente e arrivare fino al giorno dopo. Ha già fatto sapere alla moglie di non mandargli pacchi, per quanto sia tormentato dalla fame. Non può essere sostenuto per tanti anni dalla sua povera famiglia. L’attenzione dell’autore per gli ambienti, la fisicità degli uomini, per i volti abbruttiti, per i corpi stretti e pressati nella mensa o nella baracca, richiamano il kafkiano La città effimera di Giuseppe Scortecci, soldato e prigioniero dopo Caporetto nella Grande Guerra. Inevitabile il confronto con Se questo è un uomo di Primo Levi. Alcuni compagni di Ivan discutono tra loro di cinema e teatro. Hanno trovato un articolo di giornale che parla di uno spettacolo a Mosca e si confrontano su questi temi. Anche Levi nel suo libro ricorda una conversazione nel lager con un amico, incentrata sulla figura di Ulisse e sui versi danteschi dedicati all’eroe omerico. Parlare di un evento culturale o di un poema come si farebbe altrove a cena con un amico significava allontanarsi per qualche momento dall’inferno quotidiano. Ivan quel giorno si occupa con i suoi compagni di costruire un muro. Lo fa con giudizio e cura. Ha lavorato e patito per i suoi aguzzini, ma alla fine della giornata è soddisfatto sia per aver mangiato “abbastanza”, sia per la brillantezza del lavoro svolto. Questo aspetto si trova anche nelle memorie di alcuni ebrei vittime dell’Olocausto. Svolgere il proprio lavoro con competenza è un aspetto gradevole, segno di un animo pulito e limpido. Questa soddisfazione può sembrare assurda, come lo è la sua condanna a dieci anni di cui abbiamo parlato all’inizio. Ma ciò significa che Ivan non è ancora stato devastato interiormente dalla spietata e annichilente detenzione. Ha ancora dei principi e dei valori; la sera, aiuta un compagno meno scaltro di lui a nascondere il cibo ricevuto da casa e lo fa per pura amicizia.
Si chiude così, con qualche segno di azzurro, una giornata di ordinario lavoro in un campo staliniano; Denisovič sorride quando finalmente può andare a dormire, anche se sa che la sua prigionia sarà molto lunga. La pena che deve subire conta, infatti, tremilaseicentocinquantatré giornate come questa.