Quando nel 2009 fu nominato presidente del Parlamento di Strasburgo, l’indomani delle elezioni europee, l’ex premier polacco Jerzy Buzek (il primo proveniente da un Paese ex comunista a ricoprire il ruolo), osservò quanto l’integrazione europea fosse importante per i cittadini. “Non possiamo cambiare l’Europa senza i suoi 500 milioni di cittadini”, disse. “Dobbiamo rendere la vita parlamentare interessante”. A distanza di alcuni anni il paradigma sembra essere capovolto. La crisi – che pure già si era fatta sentire – appariva all’epoca meno insidiosa. Il Trattato di Lisbona doveva ancora essere ratificato (mancava infatti il secondo verdetto del referendum irlandese) e l’Europa era percepita come l’unica egida capace di affrontare le sfide del futuro. Oggi tale percezione è diametralmente opposta (cioè peggiorata, considerato che già nelle consultazioni del 2009 si registrò un exploit delle forze euroscettiche) e i distinguo in materia di politica comunitaria – messa a dura prova dai giudizi delle agenzie di rating – sono ormai all’ordine del giorno. A suggellare il ragionamento è intervenuto martedì il nuovo presidente del Pe, il socialdemocratico Martin Shulz (divenuto famoso in Italia nel 2003 per il diverbio con Berlusconi). “Per la prima volta dalla sua fondazione – ha affermato -, il fallimento dell’Unione europea non è un’ipotesi irrealistica. I governi da mesi passano da un vertice all’altro e tornano ad un periodo superato, quello del Congresso di Vienna. O vinciamo tutti insieme o perdiamo tutti insieme, perché la base fondamentale dell’Europa è il metodo comunitario, non un concetto tecnocratico, ma il principio al cuore di tutto quello che l’Ue rappresenta”. Un discorso di insediamento di tutt’altro tenore.
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