Una lettera.

Creato il 06 dicembre 2012 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Vi scrivo questa mia perché gli annunci tristi tra le pagine dimenticate dei giornali non li amo. E corone di fiori lugubri sistemati a bella posta non me la sento di mandarne. I fiori meglio raccoglierli selvatici proprio in quei campi di Sardegna che costeggiavate neppure un giorno fa. Che i rari boccioli della nostra isola non sono mai troppo sgargianti però si fanno guardare. Hanno sovente colori delicati confusi gentilmente con il mondo-intorno come se per atavica timidezza non lo volessero disturbare. Ma nelle giornate di sole più splendente sanno cambiare e per incanto diventare variopinte cascate odorose, tovaglie policrome e brillanti che vestono di radiosa eleganza anche i dirupi più rovinosi delle nostre malinconiche vallate tutte da respirare. Come quando, in primavera, si dischiudono i cardi, l’asfodelo, il corbezzolo, i fiori di campo e nelle stradine più riposte, isolate, appartate, i loro effluvi si mescolano con gli odori della terra, degli uomini, degli armenti, dei loro escrementi, di perle di rugiada che sembrano diamanti e tutto insieme diventa… profumo di noi.

La differenza è che ieri il sole non c’era. E nevicava fitto. Che, a ben guardare, anche la neve, soprattutto la neve, racconta di noi. Di noi formiche della montagna, intendo. Di quelle formiche che, per fortuna o per dispetto, nascono già marcate dalla sua ombra perenne e poi se la sentono addosso in ogni istante respirato. Che fuggire un tal abbraccio asfissiante non è concesso, non importa quanto distanti si possa viaggiare, non importa quanto lontano si voglia camminare. Ma se questo nostro vivere è un tutt’uno col morire, risultano pure assurdamente dolci, alla memoria, i ricordi di quelle ore passate, infinite giornate di bambini, trascorse con il naso a sfiorare i vetri sudati delle finestre e gli occhi attenti a catturare ogni indolente fiocco di manna gonfiata che, destinato a diventare tappeto, cadeva. Per miracolo. Dal cielo. Che a volte non pareva vero il nostro riuscire a calpestare un arazzo così elegante, luminoso, scintillante, in grado di falsare a meraviglia l’aspetto di quell’altro usato, datato, guardiano, perenne, perpetuo, e di illuderci che non fosse. Maligno.

Vi scrivo questa mia perché per quando tornerò la neve sarà già squagliata. E saranno trascorse infinite notti e interminabili giornate. Non che nel frattempo mi riuscirà di dimenticare! E poi anche la strada la conosco bene: so dove dovrò andare! Che le visite al cimitero sulla collina sono diventate da tempo per noi viandanti migranti – figli a loro modo scordati, obliati – faccenda congeniale: senza non si può più fare! Sono visite che oggi come oggi hanno finanche una struttura. Precisa. Idealmente organizzata. Quasi. Vi sono, per esempio, occasioni in cui piombo all’improvviso tra quei sepolcri a loro modo vivaci per dei colloqui veloci con questa o quell’altra… formica. Che è stata. Altre volte mi piace intrattenermi in conversazioni lunghe – sostanziali – principi di ragionamenti che in certo modo desidererei più impegnati, valutati, studiati, discorsi che si nutrono per lo più dei miei punti di vista, opinioni ostinate, radicati convincimenti e di risposte che sono echi, fantasmi delle meditate obiezioni altrui che avrebbero potuto, dovuto essere. Il più delle volte però mi piace sedere sulle travi di cemento che, nella zona nuova, quella che ospita i loculi delle ultime formiche arrivate (andate?), diramano in più direzioni. E mi fermo a pensare. Ricordare. Mi ricordo di questa e di quella. Di questa e di quella.. formica che, non fa male chiarirlo, ha sempre avuto un suo bellissimo nome ed un suo regale cognome. Una sua storia. Una storia che in genere io conosco a memoria ma che, laddove il ricordo mi imbroglia, non riesco a non ingegnarmi a completare e ad abbellire di mio. Un poco come se dotandola di una carta d’identità più definita, di esperienze di vita ritenute mirabili, di una pseudo-letterarietà discutibile, volessi regalare, anche all’ultima tra le formiche che non avevano mai vissuto, scampoli di forzata eternità. Oltre l’ombra fastidiosa che da secoli l’aveva fatta sua. Annullata. Soggiogata. Impedita. Oltre il Tempo.

Vi scrivo questa mia perché voglio illudermi così di rimandare la nuova visita destinata. Che poi, seduta su quella trave centrale in cemento, sicuramente asfissiata, angustiata, di pioggia, o altrimenti assettata di sole, non avrei granchè da raccontare di cui non sappiate già: qui da noi il tempo non è troppo diverso da quello che vi ha portato via. E anche in Irlanda fra poco sarà Natale. C’erano milioni di luci stamattina al centro della città: tutte di un unico colore. E c’era uno strano chiarore. Giochi d’alba e di tramonto che a queste latitudini in queste giornate corte spesso si confondono. Ci confondono. Sgomentano persino.

Ma vi scrivo questa mia soprattutto perché so che lo avreste voluto. Per tutto ciò che è stato e per ciò che non si è potuto. Fare. Che a ben guardare non mi avete mai fatto mancare… niente. D’importante. L’ultima volta, al telefono, si parlava di don Vinante. Con quella dolcezza strana, pacatezza gentile che non vi lasciava mai. Che in molti istanti di questa nostra vita di formiche marchiate, segnate, quella cortesia colpiva curiosa e riempiva silenzi, ore di anni e milioni di chilometri. Di distanza. Riempiva di tutto e di niente ma rafforzava il valore della vostra presenza. Sentita. Importante. Che come rari boccioli di fiori nati in quell’isola prediletta non amavate troppo i colori sgargianti però vi facevate amare. Con gesti delicati, garbati, con il mondo intorno come se per atavica timidezza non vi andasse di disturbare.  A mio avviso era comunque troppo presto – dico – per andare. Avreste dovuto fermarvi, riflettere, pensare, riempire ancora a lungo della vostra essenza diversa queste nostre malinconiche vallate tutte da respirare. Come quando, in primavera, si dischiudono i cardi, l’asfodelo, il corbezzolo, i fiori di campo e nelle stradine più riposte, isolate, appartate, i loro effluvi si mescolano con gli odori della terra, degli uomini, degli armenti, dei loro escrementi, di perle di rugiada che sembrano diamanti e tutto insieme diventa… profumo di noi.

Rina Brundu. A M. S. e A. O. Con infinito amore. Grazie – 5/6 Dicembre 2012. In Dublino.

Featured image, anni ’70, macchina di M.S. sul Gennargentu. Autore don Pietro Vinante.

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