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UNA LETTERATURA PER PROFESSORI | Perché leggere in italiano è una fatica per gli italiani

Creato il 11 ottobre 2015 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

UNA LETTERATURA PER PROFESSORI | Perché leggere in italiano è una fatica per gli italiani

UNA LETTERATURA PER PROFESSORI | Perché leggere in italiano è una fatica per gli italiani
UNA LETTERATURA PER PROFESSORI

Perché leggere in italiano è una fatica per gli italiani

di Marco Cavalli

UNA LETTERATURA PER PROFESSORI | Perché leggere in italiano è una fatica per gli italiani
Diciamolo una buona volta: al di fuori degli ambiti istituzionali, dov'è studiata e ristudiata, la letteratura italiana non suscita curiosità né identificazione. Se ne conosce quasi soltanto il prestigio nazionale, e anche quello confondendolo con l'ossequio che riscuote il patrimonio artistico del nostro paese. I limiti nazionali di questo prestigio sono ugualmente ignorati poiché ci si immagina, a torto, che tra la fama di cui gode all'estero la Cappella Sistina e il riconoscimento tributato alle Operette morali di Leopardi non vi siano differenze significative. Lontano dall'Italia la letteratura nella nostra lingua non gode di una considerazione esorbitante. La valutazione che se ne dà è controversa; la conoscenza che se ne ha, disorganica, frammentaria, circoscritta a periodi particolari, a determinati autori. Anche gli italianisti più fervidi la giudicano con severità. Scrive ad esempio Dominique Fernandez: "La letteratura italiana, di difficile accostamento e spesso noiosa, esige sempre dal lettore uno sforzo particolare. Tra i più grandi scrittori, se ne trovano pochissimi che si possano affrontare a prima vista e leggere per il puro piacere della lettura, facendo a meno di introduzioni e di glosse filologiche. Leggere in Italia è sempre stato un affar serio, piuttosto solenne, per il quale bisogna spogliarsi del proprio abito comune per indossarne uno da cerimonia." Numerose circostanze spiegano questa singolarità: in primo luogo, l'espressione scritta non ha mai rivestito un'importanza capitale in Italia, paese che manifesta il suo genio nelle arti figurative e nella musica e solamente in via accessoria nella letteratura. Già nel Trecento, nel periodo in cui Dante la innalzava a un punto di perfezione mai più raggiunto in seguito, la letteratura italiana occupava una posizione di secondo piano rispetto alla fioritura di urbanisti, architetti, pittori e scultori. Il Rinascimento produsse innumerevoli eruditi e umanisti, ma non un poeta che potesse stare alla pari, anche di lontano, con un Piero della Francesca o con un Palladio. Nel Seicento e nel Settecento, la letteratura è agonizzante, mentre i Bernini e i Borromini, i Monteverdi e i Vivaldi danno vita con lustro all'età barocca. Durante l'Ottocento, l'unico artista che giunga a toccare l'anima del grosso pubblico non è un romanziere, come Balzac, Dickens o Tolstoj, ma un autore di melodrammi, Giuseppe Verdi.

Il popolo italiano, per comunicare ciò che ha da dire, ricorre a mezzi diversi dalle parole. Se Fernandez si dice convinto che "l'espressione scritta non ha mai rivestito un'importanza capitale in Italia", è perché guarda la letteratura dal punto di vista della sua produzione e del suo consumo, non in quanto fattore di distinzione sociale. Sotto questo aspetto l'appartenenza alla categoria di coloro che detengono il monopolio dell'"espressione scritta" significa ancora molto nel nostro paese, anche per la maggioranza della popolazione estranea al circuito editorial-letterario. Per secoli la letteratura in Italia è stata un privilegio di minoranze nobiliari ed ecclesiastiche. Più era raffinata, più si identificava con gli ambienti curiali, cortesi. La poesia lirica costituisce la parte più ingente e conservatrice di quella letteratura. È grazie alla poesia che si è tramandata una lingua letteraria che da Petrarca a d'Annunzio rimane quasi del tutto inalterata. Questa lingua preservata dalla corruzione, protesa, sull'esempio del latino classico, verso un ideale di eternità formale, non è situabile secondo l'evoluzione della lingua comune. Essa rappresenta l'evoluzione o meglio la conservazione di un modello di letterarietà che tiene banco in Italia fino al XIX secolo.

La letteratura italiana ha sofferto il fatto di non avere una lingua letteraria che si costituisse anche sulle parlate popolari e ne rappresentasse la forma normalizzata e quasi idealizzata, com'è avvenuto nell'Europa occidentale, dove le lingue scritte non hanno un carattere altrettanto artificiale e concordano nelle linee fondamentali con la lingua dell'uso.

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La traduzione delle Vite parallele di Plutarco a opera di Jacques Amyot, capolavoro della prosa francese del XVI secolo, è ancora leggibile senza bisogno di ricorrere ad apparati critici e sussidi filologici. Invece la struttura dell'italiano letterario non ha subito cambiamenti di rilievo dopo il XIII secolo. Una lingua letteraria è di per se stessa arcaicizzante e tende a sottrarsi ai mutamenti che investono la lingua dell'uso. Spesso non ha altra caratteristica che delle particolarità lessicali. Tuttavia l'italiano letterario presenta un aspetto notevole che peraltro riguarda più lo stile che la lingua: la complessità della sintassi. Il costume di comporre frasi elaborate per esprimere sottigliezze e sfumature di pensiero e per esporre i concetti nel modo più elegante, è una costante nella produzione letteraria italiana. Nel Cinquecento, facendosi interprete delle posizioni di Petrarca, il cardinale Pietro Bembo istituisce un'opposizione sistematica tra la lingua scritta e quella dell'uso vivo. Da quel momento la preoccupazione degli scrittori italiani diventa quella di imitare gli schemi del fiorentino di Petrarca, Boccaccio e Dante. Si delinea il principio che doveva determinare e falsare tutto lo sviluppo della letteratura italiana. Scrivere significa evitare l'uso popolare; significa usare forme antiche, insigni, lontane dal linguaggio corrente. L'atticismo diventa un'esigenza di tutte le persone colte che scrivono in Italia.

La lingua così ottenuta è infatti un equivalente di quella che i Greci chiamano katharevousa, una lingua che nessuno parla ma che il canone letterario e in seguito le amministrazioni, le istituzioni, la burocrazia, le corporazioni professionali, la scuola, si sforzano di introdurre nel parlato. Questa lingua soddisfa gli strati della popolazione nei quali è più pronunciato il sentimento dell'identità nazionale e che si sentono investiti del compito di esprimerlo. Si realizza così un'unità della lingua scritta e, nella misura in cui dipende dalla lingua scritta, anche dell'italiano parlato. Un'unità procurata artificialmente, basata sul primato di un linguaggio elitario che si allontana sempre più dal parlato.

Una lingua così concepita presenta però un grosso inconveniente: il popolo la capisce solo a metà e non la usa. È una lingua che cerca rifugio nel passato, sorda alle esigenze comunicative più vive e presenti. La letteratura che si avvale di una lingua simile sembra appassita prima ancora di cominciare a fiorire. Dopo la legislazione sulla lingua operata dal Bembo, è il prestigio nazionale della nostra letteratura a preservarla dall'oblio. Non era facile per un paese come l'Italia, che non ha avuto né una rivoluzione sociale né un romanticismo borghese, creare una letteratura che esulasse dagli ambienti monumentali, che non si lasciasse condizionare da un patrimonio artistico antico e glorioso, il quale a forza di esigere l'omaggio finisce con l'incassare soprattutto indifferenza e incuria.

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Nel 1867 Aleksàndr Herzen scrive alcune osservazioni sul paesaggio artistico italiano che possono valere benissimo anche per la nostra letteratura. "Il carattere architettonico, monumentale, della città italiane, in uno con il loro stato di abbandono, alla fin fine viene a noia. L'uomo della nostra epoca non vi si sente a casa propria, ma in uno scomodo palco di teatro sulla cui scena figurano grandiose decorazioni. In esse la vita [...] non è semplice né comoda. Il tono è forzato, in ogni cosa si trova la declamazione e, per giunta, la declamazione italiana (chi ha sentito una lettura di Dante sa che cosa significhi). C'è dappertutto quell'esagerazione che era di moda presso i filosofi moscoviti e gli artisti tedeschi eruditi: tutto si prende dall'alto, dal più alto punto di vista. È una forzatura che esclude la naturalezza ed è sempre pronta a resistere e a predicare sentenze. L'entusiasmo cronico stanca, irrita. L'individuo non ha sempre voglia di meravigliarsi, di elevarsi spiritualmente, di essere virtuoso, commosso, e di trasportarsi col pensiero in un remoto passato; ma l'Italia non cala da un certo diapason e ricorda di continuo che la sua vita non è semplicemente una via, ma un monumento; che le sue piazze non sono fatte solo per camminarci, ma per studiarle."

L'enfasi sul prestigio nazionale sminuisce la questione della leggibilità, poco sentita dai letterati italiani, i quali in generale vanno fieri delle difficoltà che pone l'italiano sia a essere scritto, sia a trovare corrispettivi nel parlato. Forse la nostra lingua si fonda troppo sul latino perché i letterati si interrogassero sull'opportunità di scrivere adoperando una sintassi tortuosa e un lessico aulico, incentrati proprio sul latino. La leggibilità della letteratura in lingua italiana è dunque un problema che intellettuali, professori e accademici non si pongono. E a ragione, dal momento che non li riguarda. La loro coscienza tranquilla in merito è una riprova della storica egemonia della letterarietà sulla letteratura. Perciò in Italia vale ancora l'opinione che il parco letterario nazionale sia accessibile solo previa autorizzazione della minoranza di studiosi e persone colte che l'hanno in custodia e che possiedono i requisiti per stabilire l'idoneità di coloro che desiderano visitarlo. Questo luogo comune si è talmente radicato che i primi ad accreditarlo sono le sue vittime. La moltitudine dei lettori cosiddetti incolti non discute il carattere turistico delle proprie incursioni in campo letterario. Nessuno tenta di addentrarsi senza scorta, nessuno commette l'imprudenza di richiedere un trattamento diverso.

Sembra un comportamento da ingrati chiedere cinquanta centesimi quando ogni giorno si ricevono in regalo mille euro. Ma dopo aver regalato mille euro, sarebbe il caso di dare a ciascuno anche un po' di moneta spicciola perché in Italia, dove la mancanza di spiccioli è, umanisticamente parlando, cronica, si rischia morire di fame con mille euro in tasca. In qualunque posto al di fuori dell'università uno si fermi a discutere di letteratura, non troverà anima viva in grado di cambiare la sua moneta di taglio grosso.

Marco Cavalli

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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 24 - Settembre 2015.

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