"Una modesta proposta" di IVAN LEVRINI
Creato il 26 aprile 2012 da Caffeletterariolugo
Lo scrittore reggiano IVAN LEVRINI è
stato ospite di Caffè Letterario mercoledì 12 dicembre 2011, quando ha
presentato la sua raccolta di racconti “Semplici svolte del destino” edito da QuiEdit.
Se esistesse il gioco del riassunto, e si
praticasse una variante estrema in cui spingere la condensazione del discorso fino
a un limite oltre il quale scompare il dicibile, e in gioco ci fosse un giudizio
da dare sulla civiltà romagnola, allora in questo gioco del riassunto basterebbe
una sola parola per esprimere l’essenziale, basterebbe dire che sono degli esagerati.
Proprio così, il carattere tipico del romagnolo è l’esagerazione.
Qualcuno
potrebbe obiettare denunciando l’errore: qui si prende la parte per il tutto, direbbero,
una sineddoche di spazio minore, visto che l’esagerazione è un tipico carattere
italico. Verissimo, l’esagerazione è diffusa in tutta Italia. Ad esempio i
reggiani primeggiano nell’esagerazione politica. Lo sanno tutti che ai tempi
del Partito comunista la provincia più comunista d’Italia era quella di Reggio
Emilia. E non sono da meno nell’enfasi verbale: un’esagerazione portata sempre
all’iperbole, come attesta la stampa cittadina che ricalca lo spirito del
lettore. Furto al bar della scuola calcio di San Pellegrino: rubati cinque
cornetti Algida; ventinovenne in lite col marito si getta dalla finestra del
piano terra; casalinga senza precedenti penali
ritira premio al supermercato Conad con carta punti rubata: denunciata per
ricettazione. E naturalmente un po’ di neve diventa una tormenta polare, due
settimane senza pioggia fanno scattare l’allarme siccità e una mattina ventosa
si trasforma in una devastante bufera. Poi c’è l’uso di certi sostantivi che servono
a darsi importanza. Il rigagnolo d’acqua che scorre in città è asciutto sei
mesi l’anno ma lo chiamano fiume: il fiume Crostolo di Reggio Emilia. E che
dire del grattacielo? un edificio di dodici piani contando anche l’ammezzato.
Inoltre,
per ostentare grandezze non solo verbali, i reggiani sono capaci di tutto. Anni
fa avevano scoperto la risorsa del maiale, e così Reggio Emilia era diventata la
provincia d’Italia a più alta concentrazione suina. Un milione e duecento mila maiali,
che tradotto in salumi voleva dire sei prosciutti per abitante, dodici
fiocchetti, decine di coppe e salami, ciccioli a chili, e un sovrappiù di liquame
a tonnellate, che non varrà come materia prima per produrre insaccati - dicevano
a Reggio - ma come fonte di energia non era certo meno prezioso. In tempi più recenti
hanno poi strafatto in architettura, erigendo una grandiosa costruzione ad
arcate che s’intravede a quattro chilometri dal casello autostradale. Sono i
famosi ponti di Calatrava, sorretti da una struttura a cavi d’acciaio che
ricorda la cresta dello stegosauro. Così, adesso, per chi viaggia autostrada,
il biglietto da visita con cui si presenta Reggio Emilia non è più la puzza di
maiale.
Eppure, tutte queste esagerazioni
non sono neanche da paragonare a quelle romagnole. Gli esempi si sprecano. Si
consideri il mare. I romagnoli hanno il litorale sabbioso più lungo d’Italia.
Un dono di natura, si dirà, d’accordo, ma quello che hanno costruito attorno
non è opera della natura. I centocinquanta chilometri di strutture alberghiere
che sorgono sul litorale, e che garantiscono la maggiore ricezione turistica
d’Italia, li hanno eretti i romagnoli. Alberghi su alberghi, alberghi a perdita
d’occhio, forse un primato europeo, non solo italiano, perché i romagnoli,
quando si mettono un’idea in testa, non li ferma nessuno. S’è visto anche con le
due ruote, biciclette o motociclette che siano. Con le quattro ruote è diverso.
Chissà perché. Forse le trovano troppo stabili, o meno adatte ad assaporare la
brezza marina, il vento garbino. Ma per le due ruote vanno in delirio. Se si
tratta di pedalare, imparano prima ancora che a camminare. Per questo fioriscono
i fenomeni. Stessa cosa con la moto. Ingranaggi, pulegge, rumori e scarichi del
motore a scoppio: un’ebbrezza che al romagnolo evoca il godimento estivo che si
prova durante le notti passate sui lettini vicino al bagnasciuga, con le
straniere e la musica da ballo che arriva da lontano. E’ questo il segreto dei romagnoli:
se si appassionano a qualcosa, sono ardori senza mezze misure, una sfrenatezza dionisiaca.
E non conta il campo d’applicazione.
Una volta che sono catturati dall’impeto non c’è nulla che possa trattenerli.
Sono presi dal ghiribizzo della poesia? Eccoli a poetare a perdifiato, come Giovanni
Pascoli, romagnolo di San Mauro. Un esagerato che pur di poetare usava il latino.
Chiunque altro, al di fuori della Romagna, si sarebbe accontentato di scrivere
poesie nella lingua materna, invece in Romagna è diverso. Se uno fa tanto di
lasciarsi andare al pallino della poesia, è capace di poetare a più non posso, anche
nelle lingue morte. Sarebbero capaci di imparare l’etrusco. Pascoli s’era tanto
buttato sul latino che lo usava per ogni cosa, prendere appunti, annotare la
lista della spesa, imprecare, anche i pensieri gli scappavano in latino. Se
incontrava un amico gli scappava detto quo
vadis, e non per esibizionismo. E’ vero, gli amici non capivano – un pataca, dicevano – però in compenso, vinceva
i concorsi internazionali di poesia latina: tredici partecipazioni, tredici
vittorie, tanto che se Valentino Rossi è stato il dominatore del Gran Premio
delle Cinquecento, allora Giovanni Pascoli è stato il dominatore del Certamen
latino di Amsterdam. La poesia era tutto per Pascoli, e quando languiva
l’ispirazione non si dava per vinto, la cercava ovunque, anche nel sangiovese, fino
all’ultimo goccio, pur di inseguire il risultato poetico. Pertanto, se è vero
che Valentino Rossi rischia la vita sulle piste del motomondiale, è altrettanto
vero che Giovanni Pascoli la rischiava ai tavoli delle osterie.
E tanto per rimanere a tema, dov’è
nato Dino Campana? A Marradi, sull’Appennino tosco-romagnolo. Dov’è nato Marino
Moretti? E’ nato a Cesenatico. E come mai un paese come Santarcangelo, che non
è certo una grande metropoli, ha dato i natali a poeti del calibro di Nino Perdetti,
Antonio Guerra detto Tonino e Raffaello Baldini? Un poeta, questo Baldini, che ha
osato come nessun’altro, in poesia, e nessuna professoressa di scuola avrà mai
il coraggio di leggere poesie come Cuntantès,
ossia Contentarsi, oppure la leggerebbe
saltando il primo verso, quello che dice: Mè l’è trent’an ch’a chégh cumè un
arloz.
Per concludere non c’è da stupirsi
se questa comune attitudine ad esagerare abbia generato una predisposizione
affettiva fra reggiani e romagnoli. Un reggiano si sente subito a proprio agio,
in Romagna. Un reggiano arriva a Lugo, ad esempio, dove lo hanno invitato a
parlare di un suo libro, e anche se non conosce nessuno si sente a casa. Poi lo
scrittore reggiano si siede al tavolo davanti al pubblico accanto a un
presentatore romagnolo che introduce la serata con parole affettuose. E quando
gli viene chiesto di leggere qualcosa del suo libro, lui si affida a un passo umoristico.
Si tratta di una mossa rischiosa, potrebbe essere controproducente, perché se la
lettura non generasse nessun effetto, se non fosse colto il lato comico del
passo e tutti rimanessero in silenzio, lo scrittore reggiano sarebbe preso
dallo sconforto. Sarebbe un segno di freddezza che la tipica esagerazione
reggiana porterebbe a interpretare come stroncatura. Lo scrittore cadrebbe in
balia di una cupa disperazione, gli verrebbe da pensare che avrebbe fatto
meglio a non muoversi da Reggio Emilia, e forse avrebbe fatto meglio a non
scriverlo nemmeno, il libro. Per questo inizia la lettura con un tremolio alla
voce. Ha paura di sbagliare intonazione, di sbagliare i tempi, di andare a
sbattere contro il muro del silenzio.
Invece, nonostante lo scrittore
reggiano abbia iniziato col cuore in gola, dopo poche righe il pubblico
romagnolo presente in sala comincia a ribollire. Sono scoppi improvvisi che
provengono qui e là, contagiando altre zone della sala. La serietà iniziale si
scioglie e lui avverte che cresce la temperatura. Sono risate vere, emissioni
di suoni pieni, rumorosi, non sorrisi contenuti. A forza di ridere, certe
signore eleganti si devono trattenere, altre invece si lasciano andare, ed è un
piacere vederle ondeggiare. Significa che il pubblico romagnolo ha colto al
volo l’umorismo reggiano, che poi è un’altra variante della tipica esagerazione.
E ridere all’unisono non è cosa da poco, è uno dei più chiari indizi di
affinità spirituale, di cui andrebbe tenuto conto nella vita, almeno al momento
di sposarsi, visto che l’umorismo permane mentre la bellezza sfiorisce.
Ma allora, considerando il carattere
che accomuna reggiani e romagnoli, perché non costruire un gran ponte per
collegare direttamente Reggio Emilia e la Romagna? e permettere il transito di
un treno a velocità esagerata? Partire da Reggio e raggiungere Lugo in pochi
minuti. Un treno che stabilirebbe un primato mondiale e varrebbe come
infrastruttura per risollevare l’economia. Varrebbe anche come via di fuga, perché
nonostante il costume incline all’esagerazione scomposta, nel reggiano cominciano
a manifestarsi certe avvisaglie di cambiamento, forse provenienti dalle terre a
Nord del fiume Po. Si tratta della tendenza a un innaturale senso del decoro, dell’ordine,
che si avverte nelle piazze e nei viali, nei giardinetti, negli uffici
comunali, perfino nelle sedi dell’INPS o della Direzione provinciale del
tesoro, dove in passato regnava un confortevole ambiente disadorno. Si sta diffondendo
il gusto per i muri intonacati di fresco, per i colori uniformi, per le siepi
fiorite, come se fossimo in Svizzera. Dilaga la cultura dell’arredo urbano. Si
vorrebbe una città disposta come un salotto di casa, con l’effetto tipico dei
salotti ben tenuti che non si usano per non sporcarli, cioè si va altrove. Non
si vedono quasi più le auto infangate, come se non piovesse mai, i gatti
randagi sono scomparsi, i cani al guinzaglio sono addestrati ad abbaiare
sottovoce, qualcuno propone di multare i ciclisti con la bicicletta che cigola,
e sanzionare chi mangia un panino camminando, e poi l’arresto immediato per chi
si mette le dita nel naso. Tutto dev’essere misurato, regolato, normalizzato.
E’ lo spirito del perimetro funerario che si fa avanti in città: luoghi di vita
da organizzare come luoghi della sepoltura. Tutto suddiviso in lotti e aiuole
dove si fa bella figura quando il marmo è tirato a lucido. Rimuovere lo sporco,
il rumore, il disordine, come se la vita avesse in sé qualcosa di lievemente
vergognoso e il canone dell’esistenza dovesse regolarsi sul canone della non
esistenza. Forse è una reazione all’angoscia di morte che fa abbracciare l’ideale
di un mondo dove non vi sia più scambio termico fra gli oggetti dell’universo,
e tutto permanga in uno stato di immobilità. Atteggiamenti che se si
diffondessero ulteriormente farebbero proprio venir voglia di scappare, finché
si è in tempo, verso la Romagna.
di Ivan Levrini
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