Abu Dhabi - Great moskee
Notte chiara. Poche le auto a correre lungo grandi corsie di asfalto che attraversano il deserto. Quasi non senti rumore. Sfilate di palme grasse che spuntano tra un verde di artificio. Che gran cosa il denaro, riesce a comprare anche la bellezza. Cupole bianche disegnano l'orizzonte. Marmo chiaro, immacolato, purissimo. Quando riesci ad avvicinarti, ne puoi gustare il distacco assolto, la grandezza che crea l'uomo quando vuole rappresentare il trascendente, senza curarsi dei costi. Fontane di alti zampilli, l'acqua ha sempre affascinato la gente delle sabbie, la sua rarità, la sua purezza che avvicina all'assoluto. L'arco si fa astrazione e si reitera all'infinito, suono che scandisce un ritmo, ripetizione di se stesso sempre uguale mantra assoluto di preghiera che ripete ossessivamente il nome della divinità, riflettendosi ome un narciso conscio di sé negli specchi d'acqua, circondando spazi sconfinati dove si perde il cammino, nella strada verso la fede. Alti minareti, dita aguzze, unghie affilate che graffiano il cielo per chiamarne attenzione. Colonne, cupole altissime e bianco, ancora bianco abbacinante che riflette le mille luci variopinte di un caleidoscopio magico formato da colori e cristalli. E ancora pietre a formare intarsi preziosi che sanno disegnare sui muri i cento nomi di Allah. Su panche istoriate pile di Corani dalle copertine ricoperte di fregi dorati aspettano mani che li aprano per rivelare un verbo sotto la cascata di luce. Il passo non risuona come sui selciati di chiese o negli oscuri anditi di templi e pagode, ma rimane attutito, ovattato sull'immenso unico tappeto, carne viva, interiora di un corpo pulsante che ti restituisce all'esterno sazio e un poco più piccolo, come quando ritorni dall'aver visto un re. Lontani, nella notte chiara, grattacieli illuminati.