Una politica di distruzione di massa

Creato il 31 marzo 2012 da Tnepd

GilGuySparks
University of Cambridge

Un nuovo studio rivela come una politica economica radicale messa a punto da economisti occidentali abbia messo gli ex stati sovietici sulla strada della bancarotta e della corruzione.

Questo studio dimostra che il programma di privatizzazione più radicale della storia ha fatto fallire i paesi che si riprometteva di aiutare. Le lezioni delle conseguenze non volute in Russia suggeriscono che dovremmo procedere con grande cautela in sede di attuazione di riforme economiche non testate“  – Lawrence King

E’ stata divulgata da ricercatori una nuova analisi che mostra come le politiche radicali sostenute dagli economisti occidentali hanno contribuito a mandare in bancarotta la Russia e gli altri paesi ex sovietici dopo la guerra fredda.

Lo studio, condotto da accademici dell’Università di Cambridge, è il primo a tracciare un legame diretto tra i programmi di privatizzazione di massa, adottati da diversi Stati dell’ex Unione Sovietica, e il fallimento economico e la corruzione che ne seguì.

Ideata principalmente da economisti occidentali, la privatizzazione massiccia era una politica radicale per privatizzare rapidamente gran parte delle economie di paesi come la Russia durante i primi anni 1990. Tale politica fu spinta fortemente dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BERS). Il suo scopo era quello di garantire una rapida transizione verso il capitalismo, prima che simpatizzanti dei soviet potessero riprendere le redini del potere.

Invece del boom economico previsto, quello che seguì in molti paesi ex-comunisti è stata una grave recessione, alla pari della Grande Depressione degli Stati Uniti e dell’Europa nel 1930. I motivi del collasso economico e della povertà alle stelle in Europa orientale, tuttavia, non sono mai stati pienamente compresi. Né i ricercatori sono stati in grado di spiegare perché questo sia accaduto in alcuni paesi, come la Russia, ma non in altri, come l’Estonia.

Alcuni economisti sostengono che la privatizzazione massiccia avrebbe funzionato se fosse stata applicata ancora più rapidamente ed estesamente. Al contrario, altri sostengono che, sebbene la privatizzazione massiccia sia stata la giusta politica, le condizioni iniziali non erano soddisfatte per farla funzionare bene. Inoltre, alcuni studiosi suggeriscono che il vero problema aveva più a che fare con le riforme politiche.

Scrivendo sul nuovo numero di aprile dell’American Sociological Review, Lawrence King e David Stuckler dell’Università di Cambridge e Patrick Hamm della Harvard University, esaminano per la prima volta l’idea che l’attuazione della privatizzazione massiva fosse collegata al peggioramento dei risultati economici, sia per le imprese individuali che per le intere economie. Più fedelmente i paesi hanno adottato tale politica, tanto più hanno sopportato criminalità economica, corruzione e fallimento economico. Questo è accaduto, sostiene lo studio, perché la stessa politica [economica] ha minato il funzionamento dello Stato e ha esposto fasce dell’economia alla corruzione.

Il rapporto reca anche un avvertimento per l’età moderna: “una privatizzazione rapida ed estesa è stata promossa da alcuni economisti per risolvere le crisi del debito in corso in Occidente e per contribuire a realizzare una riforma nelle economie del Medio Oriente e del Nord Africa“, ha detto King. “Questo studio dimostra che il programma di privatizzazione più radicale della storia ha fatto fallire i paesi che si riprometteva di aiutare. Le lezioni delle conseguenze non volute in Russia suggeriscono che dovremmo procedere con grande cautela in sede di attuazione di riforme economiche non testate“.

La privatizzazione massiva fu adottata in circa la metà degli ex paesi comunisti dopo il crollo dell’Unione Sovietica. A volte nota come “la privatizzazione del coupon“, ha comportato la distribuzione ai cittadini comuni di buoni che potevano poi essere riscattati come azioni nelle imprese nazionali. In pratica, poche persone capirono tale politica e la maggior parte erano disperatamente poveri, così vendettero i loro buoni il più rapidamente possibile. In paesi come la Russia, questo permise a profittatori di acquistare azioni e conquistare gran parte del nuovo settore privato.

I ricercatori sostengono che la privatizzazione di massa non riuscì per due motivi principali. In primo luogo ha minato lo stato rimuovendo la base del reddito – i profitti derivanti da imprese di proprietà statale che esistevano sotto il regime sovietico – e la loro capacità di regolare l’economia di mercato emergente.

In secondo luogo, la privatizzazione massiva ha creato imprese prive di proprietà e di guida strategica, aprendole a proprietari corrotti che hanno spogliato le attività e non sono riusciti a sviluppare le loro imprese. “Il risultato è stato un circolo vizioso di uno stato e di un’economia in fallimento“, ha detto King.

Per verificare questa ipotesi, King, Stuckler e Hamm hanno comparato le sorti tra il 1990 e il 2000 di 25 paesi ex-comunisti, tra i quali, stati che hanno massiciamente privatizzato e altri che non lo hanno fatto. Sono stati anche esaminati i dati di rilevamento della Banca mondiale di manager provenienti da oltre 3.500 imprese in 24 paesi post-comunisti.

I risultati mostrano un legame diretto e coerente tra privatizzazione massiva, calo delle entrate fiscali dello Stato e peggiore crescita economica. Tra il 1990 e il 2000, la spesa pubblica è stata di circa il 20% più bassa nei paesi in via di privatizzazione massiva rispetto a quelli che ha subito una forma graduale di cambiamento. Questo era il caso persino dopo che i ricercatori hanno fatto aggiustamenti per le riforme politiche, per altre riforme economiche, per la presenza di petrolio e altre condizioni iniziali di transizione.

Allo stesso modo, stati che privatizzarono massicciamente, registrarono, dopo che il programma venne attuato, una flessione media del PIL pro capite superiore a più del 16% rispetto a quello dei paesi che non privatizzarono massicciamente.

Le analisi delle imprese individuali hanno rivelato che tra i paesi in via di privatizzazione massiccia, le imprese privatizzate a detentori nazionali hanno avuto maggiori rischi di corruzione economica. Il 78% delle società private nazionali in questi paesi era più probabile, rispetto alle imprese statali, che ricorressero al baratto, piuttosto che alle transazioni monetarie. Questo si è rivelato essere il caso, anche dopo che i ricercatori corressero i dati per le caratteristiche d’impresa, di mercato e settore, in aggiunta alla possibilità che le imprese a peggiore rendimento fossero quelle privatizzate.

Lo studio ha anche rivelato che tali imprese privatizzate erano meno propense a pagare le tasse – un fattore critico per l’accertamento del fallimento della politica, che gli economisti occidentali avevano previsto generasse ricchezza privata che sarebbe potuta essere tassata e reinvestita nello stato. Tuttavia, le imprese che sono state privatizzate a proprietari stranieri erano molto meno propense a impegnarsi in baratti e ad accumulare tasse arretrate.

La nostra analisi suggerisce che quando si elaborano delle riforme economiche, in particolare volte a sviluppare il settore privato, la tutela delle entrate pubbliche e la capacità dello stato dovrebbe essere una priorità“, aggiungono gli autori.


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