Una “questione” aperta: le Due Sicilie al momento dell’Unità

Creato il 16 luglio 2011 da Ilcasos @ilcasos

Cartiera Lefebvre, Isola del Liri (FR)

Qual era la situazione economica del Mezzogiorno nel 1861? Come si strutturava la sua società? Quanto le condizioni materiali (di vita, di produzione, di rapporti sociali…) erano già inscritte nella logica del sottosviluppo e del divario con il Nord del costituendo Regno d’Italia? E quanto questo ha influito su come quei territori sono diventati parte della storia italiana?
L’ampiezza di questo domande è sicuramente un azzardo. Ma è necessario un azzardo per partire. Da queste domande sono stato spinto a guardare in prospettiva storico-economica la situazione del Regno delle Due Sicilie, quasi a voler cristallizzare in un fotogramma quel mondo che da centocinquanta anni siamo abituati a chiamare Meridione. Se di problema storiografico si tratta, come dobbiamo leggere a questa storia? Solo povertà e arretratezza, mancanze strutturali e malaffare? Non sarebbero certo immagini completamente prive di un referente reale, che però incontra i suoi naturali ostacoli nella ricerca storicamente fondata e nell’indagine non semplicistica di fenomeni così complessi. Nei prossimi paragrafi, più che ricostruire esaustivamente l’immenso dibattito sulla cosiddetta questione meridionale, proverò a sciogliere questi nodi.
Ma prima di tutto è imprescindibile capire l’importanza e l’attualità di queste riflessioni, senza aver timore di perdere l’oggettività e il presunto sguardo neutro. Bisogna muoversi come equilibristi su un crinale difficile: da un lato le celebrazioni acritiche e apologetiche dell’Italia unita e, dall’altro, le ricostruzioni, altrettanto acritiche e apologetiche, dei “neoborbonici”. Senza dimenticare i fautori della secessione, almeno a parole. Non solo a livello giornalistico e/o locale, testi che ricalcano queste retoriche se ne trovano in quantità: c’è chi tenta di riabilitare la politica “illuminata” dei Borbone, chi invece di legittimare discorsi vagamente razzisti secondo i quali l’arretratezza del Sud sarebbe imputabile alle caratteristiche naturalidella sua popolazione. Siamo al solito discorso: l’uso pubblico della storia, può produrre effetti secondari indesiderabili quando si trasforma surrettiziamente in abuso.
Mi sforzo quindi di inserire in una cornice comune tanto le dimenticanze delle “storia ufficiale” quanto il distacco, civile, politico e – perché no – emotivo, che le narrazioni consolatorie non mancano di produrre e riprodurre. I vari meccanismi di rimozione non sono cosa nuova. Ernest Renan lo notava già in una celeberrima conferenza nel 1882: «l’oblio, e […] persino l’errore storico, costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione»[1]. Nel caso specifico della storia meridionale, ad esempio, dimenticare le deluse aspettative di cambiamento sociale, così come l’efferatezza con cui venne affrontato il fenomeno del brigantaggio, si rivela essere un tassello necessario della storia patria, in un intreccio inestricabile di memoria e oblio: «ora l’essenza di una nazione sta nel fatto che tutti i suoi individui condividano un patrimonio comune, ma anche nel fatto che tutti abbiano dimenticato molte altre cose»[2].
Per questo il sapere storico può essere di grande aiuto. Cosa che, potenzialmente, potrebbe anche scardinare le certezze rassicuranti di cui una comunità nazionale dovrebbe vivere.

Il progresso degli studi storici rappresenta spesso un pericolo per le nazionalità. La ricerca storica, infatti, riporta alla luce i fatti di violenza che hanno accompagnato l’origine di tutte le formazioni politiche, anche di quelle le cui conseguenze sono state benefiche: l’unità si realizza sempre in modo brutale […][3].

Da questo punto si possono trarre considerazioni addirittura opposte fra loro Che si arrivi, come fa Renan, a pensare che sia «bene per tutti saper dimenticare» è una preoccupazione che, a mio avviso, lo storico dovrebbe lasciare ad altri.

Un peccato originale?

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Non si dice nulla di nuovo se si nota che il processo di unificazione in Italia è avvenuto secondo caratteristiche peculiari, proprio come ogni altro evento storico. Resta comunque utile qui sottolinearne le ricadute, anche nel lungo periodo. Guardare criticamente al processo di nation building (costruzione della nazione), infatti, non può prescindere dalle prospettive sociale ed economica, che qui proverò a mettere in evidenza.

Emigranti italiani (primo Novecento)

Pensiamo al 1861. Dal punto di vista politico-militare, la sconfitta definitiva della dinastia dei Borbone e l’annessione del regno fu un’impresa piuttosto semplice, anche per la copertura diplomatica che la classe dirigente piemontese assicurò alla spedizione garibaldina, le cui forze non erano certo calibrate per avere la meglio sull’esercito di un regno in buona salute. Dinastia e regno che vanno incontro ad un vero e proprio crollo, le cui ragioni sono da ricercarsi nella conformazione economica e sociale[4]. Quella cesura va infatti letta secondo due piani distinti d’analisi: come culmine del processo di unificazione politico-amministrativa[5] e come inizio di una fase complicatissima di nation building. Come tale, esso rappresenta il primo effettivo banco di prova della storia nazionale, difronte al quale forse non è esagerato parlare di fallimento. Dal punto di vista socio-economico, al contrario, il divario fra il Nord e il Sud della penisola s’impose al momento dell’unificazione come problema nazionale cui la nuova monarchia e la classe dirigente piemontese dovevano trovare una risposta adeguata. Anzi, a rigor di logica, risposte per trasformare l’annessione in un processo di graduale integrazione economica e istituzionale avrebbero dovuto essere già pronte, vista anche l’intensità del dibattito pubblico ottocentesco. Ciò che accadde, invece, fu all’estremo opposto. Il divario fra Nord e Sud, esistente ma non così acuto, colse estremamente impreparata tutta la classe dirigente risorgimentale. Mancò all’Italia in quel momento ciò che, ad esempio, ebbe la Germania: un protezionista alla Friedrich List, o meglio il contesto culturale entro il quale il suo discorso divenne egemone, promuovendo la creazione della Zollverein (unione doganale) come tappa preliminare e propedeutica alla nascita di una comunità nazionale propriamente detta[6]. D’altronde, come scrisse lo storico Rosario Romeo,

il momento decisivo del moto per l’unità italiana resta […] l’iniziativa politica e intellettuale dei gruppi d’avanguardia; e ogni tentativo di ricostruirlo in funzione di interessi economici è condannato inevitabilmente a fallire. Tutto ciò va detto non certo per negare l’importanza dell’analisi dei rapporti tra questa iniziativa intellettuale e politica e la realtà economica del paese: ma come necessario avviamento a una corretta impostazione del problema, che sfugga al pericolo di soluzioni fondate su elementari rapporti di tipo causalistico, e riesca invece a cogliere la ricca serie di reciproci condizionamenti che legano insieme e dànno un significato coerente e unitario alla spinta risorgimentale[7].

Cattura di un brigante

La classe dirigente risultò impreparata (anche) perché, per la prima volta[8], fu necessario fare i conti con forze di opposizione non provenienti dall’alto – come le case regnanti e le classi dirigenti italiane ed europee – ma dal basso. Un dissenso sociale esplicito e capace di manifestarsi nel sentire comune della popolazione sotto forma di risentimento verso un processo di cui ci si è sentiti spettatori passivi e di aspro rancore capace di protrarsi nel lungo periodo. Esempio lampante ne è il vasto sommovimento di bande, appoggiate tanto dalla chiesa quanto dai Borbone, che va sotto il nome di brigantaggio. Si tratta di un movimento che si rischia di non capire se lo si considera fenomeno puramente delinquenziale, ma che non è un movimento politico, o lo è fino ad un certo punto.
Sarebbe interessante a questo riguardo analizzare come venne recepita l’impresa garibaldina a livello “popolare” e non solo per quanto riguarda le masse meridionali. Senza voler ridurre tutto ad una cesura troppo netta fra aspirazioni politico-ideali e politico-sociali, l’Italia di quegli anni è attraversata tanto dall’immagine dei fratelli che (si) liberano dalla divisione e dal giogo straniero quanto dall’aspettativa di un cambiamento sociale forte e incisivo come naturale corollario dell’unificazione. Questa seconda prospettiva perde ogni fondamento già prima della proclamazione del Regno d’Italia: i fatti di Bronte, tanto per citare l’esempio più noto, forniscono la cifra della delusione di quelle aspettative. Di qui il brigantaggio come una delle possibili strade per migliorare la propria condizione di vita contingente. Senz’ombra di dubbio, la tempestiva e durissima repressione militare, protrattasi per oltre un decennio, produsse ulteriore rancore e scollamento fra le istituzioni e la base sociale meridionale.
Affatto diverso, invece, fu il comportamento del neonato stato unitario difronte al problema della mafia e della camorra, via via legittimati e accettati come elementi naturali delpaesaggio meridionale, da cui scaturisce un’attitudine immobilista, indice anche della mancanza strutturale di una forte cultura di intervento sociale. Non che mancassero gli spunti teorici, anzi: per riuscire ad «estirpare la camorra […] – scriveva Pasquale Villari – bisogna prima studiarla e conoscerla bene; bisogna poi che la legge la determini meglio, e renda così possibile il colpirla in tutte le sue forme»[9], questo perché pur «supponendo domani imprigionati tutti i camorristi, la camorra sarebbe ricostituita la sera, perché nessuno l’ha mai creata, ed essa nasce come forma naturale di questa società»[10]. Su questo aspetto, le sue idee sono molto chiare: se lo Stato non si fa promotore di un intervento di risanamento totale, prendendo di petto sia i problemi demografici della città, sia quelli della campagna paludosa, non c’è possibilità di risolvere una situazione complessa, come quella meridionale:

ogni sforzo sarà […] vano se, nel tempo stesso in cui si cerca di estirpare il male con mezzi repressivi, non si adoperano efficacemente i mezzi preventivi. Io non mi stancherò mai di ripeterlo: finché dura lo stato presente di cose, la camorra è la forma naturale e necessaria della società che ho descritto. Mille volte estirpata, rinascerà mille volte[11].

Queste parole, a dimostrazione di una consapevolezza non certo in ritardo sui tempi, sono tratte da uno dei primi pamphlet che ha sollevato l’esistenza della «questione meridionale». Pubblicate per la prima volta nel 1875 dal giornale moderato L’Opinione, esprimono idee comuni anche ad altri meridionalisti liberali, come Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, che cercano di trovare rimedi stabili, ma soprattutto stabilizzanti[12].
Il peccato originale, dunque, che qui vorrei proporre come immagine, più che come vera categoria analitica, sta tutto nella sostanziale estraneità degli energici promotori dell’impresa unitaria alle stesse condizioni di vita delle popolazioni meridionali. Una vera e propria mancata conoscenza della realtà istituzionale, sociale ed economica del Regno delle Due Sicilie, pure inserito in quella fitta rete di scambi commerciali e umani che era il “sistema Italia” almeno dagli albori dell’età moderna[13]. Un regno che storicamente aveva fornito, ben prima di ogni altra realtà comunale e/o regionale del Centro-Nord, un’idea compiuta di Stato moderno – almeno nella sua morfologia embrionale – e che forse avrebbe potuto dare al processo di unificazione un apporto non indifferente da questo punto di vista. Eppure uno Stato che, a metà di XIX secolo, possedeva strutture sociali proprie ed era permeato da sistemi di organizzazione della vita materiale e istituzionale completamente diversi dal resto della penisola. Per non parlare dei sistemi mentali, i cui riverberi possono misurarsi solo nella lunga durata e che hanno posto – con forza e da subito – il problema di fare gli italiani.
Ebbene quelle donne e quegli uomini che hanno fatto l’Italia, pur coinvolgendo o almeno assicurandosi la passività di larghi strati della borghesia meridionale – complice la loro sempre più accesa insofferenza nei confronti del governo borbonico –, non furono in grado di rendere partecipi le grandi masse meridionali del rinnovamento di cui si facevano promotori. Ma chi, d’altronde, fu in grado di fare ciò? Non lo fu il decennio napoleonico (1806-1815) in cui i vari «progetti di riforma delle istituzioni feudali, tentati inutilmente nella seconda metà del Settecento dai governanti ispirati dagli intellettuali illuministi, ebbero […] finalmente una concreta realizzazione»[14] solo grazie all’esercito e all’imposizione dall’alto. E certo non lo furono il restaurato Regno delle Due Sicilie e il Regno d’Italia.
Scemate tutte le varie opzioni (repubblicana, neoguelfa/confederale, democratica/federalista) che l’ingegneria politica e istituzionale ottocentesca aveva avanzato nel corso di una lunga e appassionata riflessione, il Regno d’Italia si costituì grazie all’allargamento degli ordinamenti del Regno di Sardegna a tutto il nuovo territorio. Vittorio Emanuele II di Sardegna non diventerà mai I d’Italia così come la costituzione liberale di Carlo Alberto (statuto albertino), unica superstite del Quarantotto italiano, verrà allargata a tutto il territorio italiano fino alla seconda guerra mondiale.

Società, istituzioni, economia: persistenze e trasformazioni

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Dal punto di vista della periodizzazione, bisogna prendere in considerazione necessariamente l’arco di tempo che va dalla rivoluzione al crollo[15]. Al di là dell’importanza che l’arrivo dei francesi riveste per un discorso di unità territoriale, così come di evoluzione dei concetti di patria e nazione, interessa maggiormente guardare a questi eventi come a un momento di passaggio epocale fra feudalesimo e capitalismo. Non bisogna qui però creare confusione e pesare bene il significato di questa transizione all’interno della storia italiana[16], come caso di sfeudalizzazione precoce accompagnata ad un’industrializzazione tardiva:

tutte le analisi finiscono in generale con l’inciampare nell’identità, affermata, più che veramente stabilita, fra il cambiamento del modo di produzione – la cosiddetta transizione – e il passaggio dalla società rurale alla società industriale[17].

Il caso inglese, infatti, vede coincidere temporalmente questi due momenti. Eppure se lo prendiamo a modello di transizione, come è stato fatto abbondantemente, esso rivela tutta la sua inadeguatezza, proprio per il suo essere un caso fra gli altri. Si fanno chiari così i termini di una vera e propria peculiarità che ha proceduto secondo strade sue proprie nel passare da un sistema all’altro. L’Italia – presa come sistema economico che è possibile assimilare – ha fatto esperienza con largo anticipo (già dal XII-XIII sec.) di alcune importantissime dinamiche di cambiamento strutturale nei rapporti di produzione. Grazie alla fioritura del mondo cittadino, specie al Centro-Nord, si stabilisce una dinamica di sviluppo basata sul commercio e la manifattura che si piazza all’avanguardia del panorama europeo, sia a livello tecnologico sia a livello di “posizioni” guadagnate nelle piazze più importanti. Scrive ancora Aymard:

[l'Italia] domina i mercati di materie prime e gli sbocchi commerciali dei prodotti manifatturieri, assicura e controlla gli scambi a lunga distanza delle derrate preziose di quelle pesanti. Le sue industrie sono specializzate nelle produzioni più prestigiose; nella misura dei suoi bisogni si sono sviluppate le tecniche commerciali e bancarie, istituendo una rete finanziaria che ricopre l’Europa e il Mediterraneo. I vantaggi acquisiti in tal modo e il posto occupato dalle attività secondarie e terziarie spiegano l’alto livello dell’urbanizzazione e l’affermarsi di quadri politici nuovi, insieme con la nuova strutturazione di una gerarchia di poteri, di ricchezze, di attività economiche, di valori sociali, di modelli culturali[18].

Tutto ciò, muta decisamente di segno fra la fine del XVI e il XVII sec. quando le città italiane si avviano verso un lento declino. Molte sono state le interpretazioni avanzate negli anni sulle cause di questo cambiamento, animando un intenso dibattito storiografico. Ammettendo una dinamica multifattoriale si può continuare a considerare nella giusta misura anche una causa esogena come la perdita di centralità geografica del Mediterraneo a seguito delle scoperte cinquecentesche, così come le guerre e le invasioni che in quel tempo interessarono gran parte della penisola[19]. Fatto sta che genovesi, veneziani, milanesi e fiorentini persero nel corso del Seicento gran parte delle posizioni per le quali si erano trovati in una situazione di vantaggio, se non addirittura di predominio internazionale. Perdendole, pur nelle normali resistenze della “vecchia mentalità mercantile”, la tendenza generale in Italia fu quella di approdare ad un rinnovato interesse per i problemi della terra, sia per la pressione demografica sia per il venir meno degli alti profitti commerciali. Si abbandonarono così le vecchie occupazioni «ad uomini nuovi, più ardimentosi, meno legati alla tradizione e che soprattutto non avessero un patrimonio da conservare»[20], alimentando la spirale di declino. Una sorta di anticipo paralizzante, che a lungo andare si spegne perché non adeguatamente supportato dalle componenti restanti della economia tutta.
Il Meridione in questo processo di lungo periodo si inserisce in modo ancor più particolare.

Gioacchino Murat

Non è mai mancata da parte degli storici l’attenzione a guardare specificamente a come l’Italia meridionale abbia risposto a questo processo plurisecolare. Ma è necessario concentrarsi sull’Ottocento. L’anno zero dal punto di vista istituzionale può a ragione essere posto al 1806, quando Giuseppe Bonaparte emana la famosa legge eversiva della feudalità, un cambiamento notevole della realtà non solo istituzionale del nuovo regno. Di certo la monarchia amministrativa di Giuseppe Bonaparte, che intraprende il progetto, e poi del successore Gioacchino Murat, cui davvero spetta il compito di farlo funzionare, non intende annientare il vecchio ceto baronale in quanto unità socio-economica, quanto piuttosto esautorarlo a livello giurisdizionale. E infatti il primo risultato dell’abolizione della feudalità fu senza ombra di dubbio la creazione di una classe di grossi proprietari che conservarono tutto, o quasi, del vecchio status. Questo, ovviamente, anche per considerazioni di opportunità politica che i due sovrani stranieri dovettero mettere in conto: in un contesto in cui non erano venute fuori quelle forze sociali capaci di opporsi autonomamente al potere baronale, non sarebbe certo stato così facile perseguire le politiche ben più incisive ed efficaci maturate durante la Rivoluzione francese[21]. O meglio, la componente più importante della novità legislativa sta nell’aver sottratto al vecchio ceto baronale ogni prerogativa giurisdizionale e amministrativa a tutto vantaggio della nuova amministrazione statale, che diventa così moderna e si avvia verso la possibilità di pianificare, anche a livello economico, una politica ben diversa da quella borbonica.
Non è un caso, ad esempio, che al momento della Restaurazione i Borbone non faranno marcia indietro su questo punto, ritenendo il periodo napoleonico, al di là della retorica politica, foriero di numerose «istituzioni utili» alla piena realizzazione di quell’ordine amministrativo capace di conferire un’energia completamente nuova al governo restaurato. Una tendenza, d’altronde, che si ritrova anche in altri luoghi dell’Italia post-napoleonica: «che cosa c’[è] da temere, dunque, del nuovo ordine repubblicano – afferma infatti il patrizio milanese Francesco Melzi d’Eril rivolgendosi ai suoi pari – quando la sola reale qualità vostra, quella di proprietarij, viene ad essevi garantita siccome lo scopo principale del patto sociale […]?»[22] Pur con tutti i suoi limiti, dunque, il decennio francese resta comunque «una svolta fondamentale» nella storia del Mezzogiorno in quanto è «allora che cadono le impalcature feudali, è allora che il Regno si dà un assetto istituzionale moderno e stringe rapporti nuovi e più ampi con l’Europa»[23].
Resta comunque piuttosto difficile affermare che il decennio sia un momento di forte spinta economica catalizzata da dinamiche istituzionali finalmente moderne e lungimiranti. Si guardi ad esempio alle dinamiche agricole. Certo la privatizzazione delle terre – quelleenclosures (recinzioni) che nel “modello inglese” erano ormai completate – e il conseguente progressivo abbandono degli usi civici e dei gravami feudali, mette in moto un processo di creazione di un «nuovo ceto di fittavoli e di gabellotti, di proprietari benestanti, di grossi commercianti cittadini, che riuscirono così a raggiungere il possesso fondiario, mentre i grandi latifondisti riuscirono a incamerare fondi un tempo concessi in enfiteusi o in suffeudo»[24]. Costoro, che altrove erano stati il motore di una forte crescita economica, nel Mezzogiorno in generale non riuscirono ad innescare gli stessi meccanismi: vuoi per la scarsa attenzione all’investimento produttivo nei campi, vuoi per la difficoltà a commercializzare il prodotto, specie per le regioni dell’entroterra o vuoi di conseguenza per la posizione di dipendenza che nel corso del XIX sec. il Regno assume nei confronti dei mercati esteri (britannici e francesi in primis). In pratica si ebbe quella crescita senza sviluppo basata su colture estensive, con scarsi effetti di cambiamento strutturale.

Lavoro nell'industria serica

Lo stesso discorso vale anche per le manifatture e il possibile sviluppo industriale che queste avrebbero potuto mettere in moto. Anche qui, non bisogna guardare al Meridione napoleonico e poi del secondo periodo borbonico con gli occhi viziati dalla questione del divario Nord-Sud. Tanto più perché a guardare i dati, è ancora Bevilacqua a farcelo notare, il dualismo che pure all’altezza di questi anni sembra gettare le proprie basi è «modesto» se

per esempio – secondo le insicure statistiche relative ai primi anni dopo l’unità – paragoniamo il numero dei fusi attivi nell’industria cotoniera del Sud, circa 70 000 (pari al 15% del totale nazionale) con i 197 000 (43% del totale) di Piemonte e Liguria messi insieme e i 123 000 della Lombardia (27%), noi possiamo valutare più realisticamente la portata di questa differenza considerando che nello stesso periodo in Francia erano attivi oltre 5 000 000 di fusi e in Inghilterra un numero superiore a 30 000 000. Così, se il Mezzogiorno alla stessa epoca produceva intorno alle 1500 tonnellate di ghisa contro le 17 000 del Nord d’Italia, tale disparità appare assai meno significativa alla luce delle quasi 600 000 tonnellate della Germania, poco meno di 1 000 000 di tonnellate della Francia, 3 722 000 tonnellate dell’Inghilterra. Lo squilibrio, quindi, grave ed evidente, era fra l’Italia e i grandi paesi europei ormai in piena fase di industrializzazione, mentre le disparità quantitative Nord-Sud erano contenute entro un ambito modesto […][25].

Il ripiegare delle strutture economiche verso l’agricoltura, come già notato, è parte di un processo secolare di perdita della spinta propulsiva italiana nei confronti dei mercati internazionali. Questo lascia il Regno delle Due Sicilie, nel passaggio fra XVIII e XIX sec., piuttosto impreparato dinanzi alle sfide industriali. L’agricoltura, infatti, la fa da padrone anche nello sviluppo manifatturiero, trainando tutta una serie di attività – trattura della seta e filatura del cotone – secondo un processo, classico di un paese pre-industriale, in cui primario e secondario «si danno la mano»[26]. E tipico di un paese non industrializzato è anche rivolgere i propri sforzi soprattutto ai «servizi pubblici, di trasporti ferroviari e tranviari, illuminazione a gas, acquedotti […] che sono appunto le forme di investimento preferite dei paesi sottosviluppati, vuoi nell’intento di fornire materie prime alle industrie manifatturiere dei paesi investitori, vuoi per la maggiore sicurezza e stabilità della domanda che è assicurata alle imprese di servizi pubblici»[27].
Nel Mezzogiorno a questo si aggiunge la scarsa intraprendenza del nuovo ceto emergente che prova a buttarsi nelle imprese industriali, nonostante una discreta capacità di attirare investimenti dall’estero. La preferenza resta comunque per gli investimenti di tipo soprattutto speculativo, come il finanziamento del debito pubblico, che a lungo andare diventa un freno al processo di razionalizzazione e miglioramento della produzione. Da qui, l’enorme fatica a mettere in atto vere strategie di crescita e sviluppo.
Il Regno si attesta quindi su posizioni trainate dall’esterno, specializzandosi come fornitore di materie prime (olio, canapa, agrumi) e di semilavorati (seta greggia e lana). Il settore tessile gode, nel corso di tutta la prima parte del secolo, di un notevole slancio opportunamente aiutato dai Napoleonidi sia tramite la creazione di apposite istituzioni (il Reale Istituto d’incoraggiamento nel 1808 e la Giunta delle arti e manifatture del Regno[28]), sia tramite la politica del blocco continentale che metteva al riparo dalla concorrenza inglese. Non mancano, infine, eccezioni positive e manifatture virtuose, che pure fanno difficoltà a generalizzare la crescita per via di inadeguate strutture a supporto. È il caso dell’industria alimentare (concentrata nelle zone di Torre Annunziata-Gargano o nella costiera amalfitana), oppure la concia delle pelli (i celeberrimi guanti bianchi di Napoli) e, infine, l’industria della carta, inizialmente anch’essa localizzata sulla costiera amalfitana, poi sviluppatasi moltissimo nella Valle del Liri[29].

Conclusione

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In chiusura, ci si potrebbe chiedere che fine abbiano fatto tali esperienze di modernizzazione del sistema produttivo meridionale. La rigida adesione della classe post-risorgimentale agli ideali del libero scambio fece sì che quasi tutte le esperienze di sviluppo dell’Italia meridionale venissero a scomparire dopo il 1861, sbarrando quelle strade verso il benessere che erano state intraprese. A dispetto delle critiche molto aspre soprattutto da parte degli storici di ispirazione liberistica:

l’esperienza del Mezzogiorno conferma che l’industrializzazione solo in parte è un fenomeno spontaneo di pure forze economiche: in larga misura essa è o può essere il risultato di organizzazione e di strategie consapevoli tanto dei privati che delle istituzioni statali, soprattutto in realtà periferiche rispetto ai centri più avanzati dello sviluppo[30].

Bisogna dunque riconoscere il valore specifico di questo processo di sviluppo, forse solo abbozzato, ma non certo inconsistente. E a cosa ricondurre il suo esaurirsi, se non (almeno in parte) alla mancata conoscenza ricordata sopra?

[Bibliografia]


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