Gira che ti rigira, le canzoni non erano più il solo ingrediente a rendere il disco così interessante e prezioso.
L’etichetta, per esempio, aveva un’importanza fondamentale.
Sapere quale fosse la casa discografica che lanciava un determinato cantante, o che pubblicava una compilation, costitutiva un elemento-base dal quale non si poteva prescindere. Perché portarsi a casa il disco di una major (RCA, EMI, CBS, WEA, CGD) aveva un certo sapore, mentre comprare una produzione di un editore indipendente (Durium, Baby Records, Yep, It e mille altri) ne aveva tutto un altro.
Per i grandi marchi incidevano tutti gli artisti sostenuti da forti investimenti promozionali, quelli che vedevi trattati come ospiti d’onore nelle trasmissioni-tv e che, complice il marketing, un posto nella top 50 di “Sorrisi e Canzoni” se lo sarebbero aggiudicato di sicuro.
Presso le case minori incidevano invece i cantanti derelitti alla disperata ricerca di una loro carriera, ma spesso accadeva che proprio qualche artista prodotto da un’etichetta indipendente facesse il botto e superasse tutti gli altri, tenendo in piedi da solo le sorti dell’intera azienda.
Oh certo… succede la stessa identica cosa anche oggi, con pochissimi players a spartirsi la torta del mercato e migliaia di produttori domestici o poco più che provano a metter su una ciliegina. Non c’è grossa differenza, in questo, tra ieri e oggi.
Eppure qualcosa di diverso, di andato perduto per sempre, purtroppo c’è.
Il cambiamento sta nel fatto che, mentre oggi, con il digitale, scegliamo la musica senza incuriosirci granché se il responsabile della sua immissione sul mercato sia un gigante del mercato o una piccolissima indie, all’epoca del vinile questa distinzione saltava agli occhi già tirando fuori il disco dalla busta di carta: il colore dell’adesivo e il marchio stampato sopra immediatamente davano una riconoscibilità al progetto musicale, e un sapore all’ascolto che cambiava a seconda di quel pezzetto di carta appicciato sopra.
Senza contare che ogni casa discografica aveva la sua linea editoriale ben precisa, e che, ad esempio, se il tuo vinile era marchiato RCA significava probabilmente ascoltare un artista italiano approvato dalla Curia; o se sul giradischi compariva il bimbo col cilindro della Baby Records novantanove su cento era dance fatta in casa da un cantante farlocco che imitava i brani di successo, mentre se il tuo long playing aveva sul il logo della Fonit Cetra non c’erano dubbi: si trattava di un cantante in odore di lottizzazione RAI TV.
Insomma.. come gli intenditori di vino, anche noi amanti della canzonetta davamo un’importanza fondamentale all’etichetta, che riusciva a dirci molto della musica che stavamo per ascoltare ancor prima di aver abbassato il braccetto sulla prima traccia.
Ho sempre adorato studiare le labels: a dodici anni sapevo tantissime cose sulle aziende che dietro ad esse si nascondevano, al punto che uno dei miei giochi preferiti era immaginarmi discografico e creare delle compilations registrando le canzoni dalla radio per poi passare pomeriggi interi a decidere quale editore avrebbe potuto produrre quella mia cassetta pirata.
Per questo oggi mi mancano un po’, le etichette sulla musica che compro. Per questo ha perso parecchio fascino, per me, il gesto di acquistare un disco.
Non essendoci nessuna etichetta appiccicata sopra un file mp3, io, adesso, mentre ascolto una canzone, a che cosa gioco?