Una questione di qualità?

Creato il 01 novembre 2011 da Sulromanzo

Ieri, 30 ottobre, è comparso su Nazione Indiana un articolo: Una questione di qualità, ripreso da Il Manifesto. Gli autori sono Andrea Libero Carbone, Alessandro Raveggi, Vanni Santoni e Giorgio Vasta, persone stimabili letterariamente, pur nelle loro diverse specificità; persone che conoscono i meandri editoriali da un punto di vista interno e consapevole. Ma. C’è un ma.

Nella prima parte dell’articolo si chiarisce:

Per questa ragione, nel riflettere su qualcosa come il self-publishing e, attraverso questo, su quelle che proponiamo di chiamare pseudoeditorie, non vogliamo limitare il nostro intervento al contesto letterario ed editoriale; il fenomeno in questione non si articola soltanto o soprattutto nel recinto più o meno ampio di un settore ma lo trascende proponendosi semmai al contempo come conseguenza e come premessa, vale a dire come effetto di un mutamento e come concausa di un’ulteriore metamorfosi. Sforzarsi di non perdere di vista le implicazioni e le conseguenze di ogni fenomeno in teoria circoscritto, pretendere di non ignorare l’idea di mondo che da ogni manifestazione discende, ci sembra dunque strutturale a ogni analisi che voglia considerarsi complessa.”

Il proponimento degli autori è di trattare la pseudoeditoria, in altre parole la “falsa editoria” che si divide in due grandi filoni: la vanity press e il print on demand (POD).  

Subito una precisazione all’articolo, nel quale si legge: “la vanity press, dove all’autore viene richiesto un contributo per la pubblicazione, sotto forma di denaro o acquisto di copie”. In realtà, non di rado sotto forma di denaro e acquisto di copie.

Si parla della casa editrice a pagamento (EAP) Albatros – Il Filo (Sul Romanzo ne ha parlato più volte, come per esempio il 3 marzo 2010), ricordando il noto evento (1-2-3-4-5) che vide coinvolti Andrea Malabaila, Linda Rando e Giorgia Grasso. L’impressione è che si porti al contratto qualsiasi autore, senza un serio editing sul testo, sottraendo all’editor la funzione che gli è propria per mutarlo in una sorta di venditore editoriale che invogli a firmare per una pubblicazione, a patto di sganciare denaro. Si noti che nella homepage di Albatros – Il Filo compaiono nomi del calibro di Alberto Bevilacqua, Stefano Zecchi, Luciano De Crescenzo, ecc., che riconoscono una certa autorevolezza al progetto editoriale, confermando così un concetto tout court nella mente dello scrittore esordiente, anche se illusorio: “Se loro hanno pubblicato con questa casa editrice, allora significa che vi è serietà”.

L’articolo prosegue sezionando un esempio del secondo filone, il caso di ilmiolibro.it, sito che permette di stampare un libro e venderlo online (senza tanti giri di parole, una tipografia con un canale virtuale di commercio), nonostante il nemico dietro l’angolo: nessun ISBN, traduzione: senza ISBN un libro non è classificato in forma univoca a livello internazionale, ma diventa essenziale nel momento in cui si intende immettere il prodotto librario nel canale di distribuzione. Quindi ilmiolibro.it commercia libri ben sapendo che ufficialmente non potrà mai, senza ISBN, immetterli nei canali distributivi, in particolare presso le librerie e le biblioteche. Infatti, i gestori di ilmiolibro.it sono chiari nelle “condizioni e termini generali di utilizzo dei servizi”, parlando altresì di community. Inoltre, come nel primo esempio, s’utilizza un sistema illusorio, forse più sofisticato, i nomi presenti in alto in homepage donano autorevolezza al progetto.

Gli autori dell’articolo su NI scrivono:

Leggendo con attenzione la comunicazione di ilmiolibro.it, ci si rende conto che il gruppo Repubblica-L’Espresso, Feltrinelli e Scuola Holden puntano su una specie di strategica “deterritorializzazione” della loro iniziativa: ilmiolibro.it è un progetto “buono” e privo di luogo, incollocabile, che si limita a fare del bene, a soccorrere, dialogando direttamente con una tipologia di, chiamiamolo così, “autore-editore” rassicurandolo sulla sua identità: non sei più il povero diavolo costretto a pubblicarsi da solo, non devi considerarti tale: sei a tutti gli effetti uno scrittore, partecipi a un concorso tra tuoi pari e magari lo vinci e vieni pubblicato da Feltrinelli.


Esatto, sembra che sia proprio la situazione che si viene a creare. Poco sotto nell’articolo un primo punto debole:

“Ma non crediamo proprio, con l’avvento della pseudoeditoria di nuova generazione, di essere di fronte a un ’48 dell’editoria, che ne liberi le possibilità latenti e le pluralità spesso messe in difficoltà dallo stretto legame produzione-distribuzione: siamo piuttosto di fronte alla creazione di una comunità dell’assenso (acquistabile), che non prevede il dissenso, la scelta, il confronto, il “no” utile alla maturazione”.

Il dissenso, la scelta, il confronto, il “no” utile alla maturazione sta nella probabile caduta – per moltissimi – nel silenzio rispetto alla propria opera pubblicata, tanto che sia la vanity press quanto il POD. Pubblicare un libro e fare un buco nell’acqua dal punto di vista delle vendite è forse il miglior modo per tornare nella terra dell’umiltà, educando l’io a un rapporto più critico verso la scrittura (la propria scrittura). La forma autore del self-publishing è di certo un fattore temporale legato a quindici minuti di celebrità, ciononostante, nel 99% dei casi, la distruzione di tale forma nell’io interessato dura molto più, anche anni. Non è questo utile alla maturazione? A maggior ragione se la disponibilità economica per pubblicare il proprio libro è stata conquistata con fatica (guai a dimenticare che il sistema pseudoeditoriale è trasversale nei censi, perché magari il “povero” spera nel riscatto, illudendosi, ovvio, ma la speranza possiede più forza della logica), allora il percorso di consapevolezza sarà inciso spesso nella pietra della prudenza per il futuro.

In ogni caso, è vero in parte: “Lo scenario che si configura è quindi quello in cui la disponibilità economica produce le condizioni per il sì ed espelle automaticamente il no”.  Il no acquista una nuova forma, più dura da sopportare, hai scritto il tuo libro? Sì. Lo hai pubblicato quando tutti dicevano che non valeva nulla? Sì. Hai venduto molte copie? No. Quest’ultimo no va di necessità interpretato, non può passare sotto silenzio nell’anima dello scrittore esordiente, perché i dati – i dati di vendita miseri per la gran parte di fruitori di pseudoeditoria – sono lì a testimoniare un fallimento, togliendo all'istante una grossolana e diffusa difesa accusatoria verso i gangli del sistema editoriale. Non è questo utile alla maturazione?  

Secondo punto debole:

“Considerato che il no è qualcosa che può provenire da quelle agenzie di senso, fondate su studio e competenza, che sono gli editori tradizionali, quella che si va definendo è una loro progressiva dismissione”.

Si sta quindi ammettendo che gli editori tradizionali siano agenzie di senso, fondate su studio e competenza. Una dichiarazione alquanto vaga, perché basta leggere le classifiche settimanali dei libri più venduti per intuire che tanti editori stanno investendo sulla paraletteratura, alla ricerca della “comunità dell’assenso (acquistabile), che non prevede il dissenso, la scelta, il confronto, il “no” utile alla maturazione”, forme diverse, ma stessa sostanza, alla ricerca non della qualità, ma del business del prodotto editoriale. Voler fare credere che la filiera dell’editoria tradizionale non sia sdraiata anch’essa nel prato della ricerca del best seller a tutti i costi, con un impegno forte promozionale a dispetto della qualità, è in qualche modo rischiare un’informazione imprudente. Per non parlare delle commistioni di cui si parlava tempo addietro in questo blog. I confini non sono ben definiti fra pseudoeditoria ed editoria tradizionale come si vorrebbe far pensare, piacerebbe, ma la realtà è assai più complessa.

Terzo punto debole dell’articolo, forse il più pericoloso:

“Generazione TQ propone innanzitutto una rivendicazione del lavoro editoriale come scelta intellettuale trasparente, invitando gli editori a pubblicare sui propri libri il nome di chi ha diretto la collana, di chi ha letto, scelto ed editato il libro, così da contribuire a sgomberare il campo editoriale da quei dubbi, e da quel mito di inaccessibilità, alla cui ombra prospera la pseudoeditoria”.

Non potrà accadere: pena collasso dell’intero sistema editoriale. Troppo drastico?

L’associazione italiana editori, come è noto, pubblica ogni anno un rapporto sullo stato dell’editoria in Italia. Un dato, fra i numerosi, è costante: la diminuzione di tiratura media per titolo (nel 2011 è stata di 3600 copie, circa 200 in meno rispetto all’anno precedente). Le tirature medie diminuiscono, si cerca il botto stagionale e, a parte le rese e il mercato dei remainders o la grande risorsa degli Autogrill, ogni casa editrice, anche la più insospettabile, tenta di contenere i costi di frequente con contratti fantasiosi coi dipendenti, o detto altrimenti sfruttando il sommerso, cioè esternalizzando non poche operazioni redazionali e mantenendo appunto nel sommerso parte di esse: fammi una scheda di lettura e ti pago 50 euro cash, il famoso mondo dei lettori di tante case editrici. Vogliamo fare finta di nulla su questo cari Andrea, Alessandro, Vanni e Giorgio? Vogliamo davvero credere che gli editori siano disposti a citare nomi e cognomi dei fantasmi? Si può secondo voi rivendicare il lavoro editoriale come scelta intellettuale trasparente se tantissimi editori italiani:

1-   sfruttano ogni tot mesi nuovi stagisti in funzione rotativa e deresponsabilizzante?

2-   escludono all’ultimo momento coloro che con contratto a progetto dovrebbero diventare per legge dipendenti?  

3-   esternalizzano servizi risparmiando anche attraverso il sommerso?

E altra domanda, provocatoria: non è che proprio le case editrici tradizionali siano state le vere artefici del terreno su cui la vanity press e il POD si sono sviluppate e diffuse a cascata nella società? Non è che le responsabilità, in parte (decidete voi quanta parte), sia proprio degli editori tradizionali che per primi, da anni, producono libri con travestimenti poco onesti nei confronti dei lettori e delle parti più deboli lavorative del mondo editoriale?

Per questo non potrà accadere quanto chiedete, significherebbe far precipitare gli altarini, le commistioni, l’ostentata inesistente purezza di chi da una posizione ora vittimistica verso la modernità tecnologica si lamenta del progresso e dell’onda di democratizzazione delle possibilità per il singolo autore esordiente, che piaccia o meno a chi si sente fondato su studio e competenza all’interno dell’editoria tradizionale.

In non rari casi si dubita con fastidio della qualità della vanity press o del POD, in altrettante occasioni è forse ancor più fastidioso dubitare di chi pensa di distinguersi dalla mucillagine – lemma tornato di moda di recente – quando si è forse appena un po’ meno sporchi dei primi, per fare eco all’ultima lezione sulla missione del dotto di Fichte.

L’esistenza del postmodernismo editoriale, per utilizzare un concetto espresso alcuni mesi addietro da Sam Missingham, è di necessità, come sostengono gli autori dell’articolo pubblicato su NI, pseudoeditoria? O non è forse un cambiamento epocale che spazzerà in realtà via tanti ruoli che ritenevamo consolidati perché da decenni punti di riferimento del mondo editoriale?

Parleremo di questo venerdì.

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