Una riflessione su Zeman e lo spettacolo (by Bruce Wayne)

Creato il 18 aprile 2013 da Simo785

Se c’è una cosa che sicuramente non può essere rimproverata al calcio moderno, quella è certo la mancanza di spettacolarità. Perché si può dire – e si dice – di tutto sul modo in cui si corre dietro alla sfera sul rettangolo di gioco al giorno d’oggi, ma non certo che rispetto al passato abbia perso la capacità di offrire emozioni e divertimento. Al contrario, si può dire – e si dice – che queste ultime sono state indubbiamente incrementate, a partire almeno dagli anni ’70-80.

Ce lo ricordiamo, per dire, Mariolino Corso nella mitica Inter di Helenio Herrera? Un campione indiscusso, gran finalizzatore di gioco e soprattutto grande specialista nei calci da fermo. Ma oggi, molto probabilmente, faticherebbe a trovare un posto da titolare, perché giocava praticamente da fermo e, per di più, si ritrovava anche qualche filo di pancia. Ed abbiamo presente Gigi Riva, che portando il Cagliari allo scudetto fece sì che un grande come Gianni Brera gli affibbiasse il soprannome di “Rombo di tuono”? Era un sinistro formidabile il suo. Ma dubito che avrebbe avuto molto spazio in un Barcellona con Lionel Messi in campo. E nemmeno credo che il divario di reti segnate che separa Francesco Totti dal leggendario Silvio Piola possa davvero riflettere una superiore qualità tecnica o atletica del secondo sul primo. Insomma: il nostro calcio ha mille difetti, ma di certo tra questi non rientra la carenza di spettacolarità.  

Ma a questo punto subentra un problema: Zdenek Zeman. Perché, com’è noto a tutti, il boemo ha sempre fatto dello spettacolo la pietra angolare della sua filosofia di gioco, ed in questo senso può essere considerato una specie di emblema del calcio moderno. Ma, ciononostante, non solo non ha riportato risultati – come gli si rimprovera spesso: offre un calcio tanto spettacolare quanto povero di titoli –, ma viene anche considerato – ed è effettivamente – una sorta di eretico dello sport contemporaneo. Come mai?

Io credo che questo singolare paradosso si spieghi considerando tutto ciò che la spettacolarità del calcio contemporaneo comporta come corollario. E non alludo semplicemente al doping, che con tutta probabilità ha dato un incremento notevole al tasso di agonismo del nostro sport nazionale ed al quale Zeman si è sempre fermamente opposto. Penso, piuttosto, al fatto che il calcio si è trasformato in uno spettacolo non solo sul campo da gioco, ma anche fuori. Anche nel crescente divismo dei calciatori, come pure nei dibattiti infuocati che, non meno della politica (anch’essa sempre più spettacolarizzata), riesce a suscitare. E trasformare lo sport in una specie di sezione separata di Hollywood o Cinecittà non è cosa che non abbia effetti sull’organizzazione complessiva del gioco, sulle gerarchie che nascono negli spogliatoi, sul ruolo dell’allenatore e delle società ecc., perché come sappiamo bene il peso specifico di un beniamino delle folle rimane invariato anche se, magari, non si presenta agli allenamenti.

Non per nulla ciò che si è sempre rimproverato a Zeman è di essere riuscito ad ottenere buone prove solo in squadre con ambizioni limitate come il Foggia o il Pescara. Ma, a ben guardare, è questo un fatto che dimostra come la filosofia calcistica di Zeman concepisca lo spettacolo in termini strettamente sportivi, e non in termini mediatici. E, dunque, non è forse un caso se l’allenatore boemo ha sempre ricordato con grande piacere l’incontro avuto con Francesco Totti, che forse nel calcio di oggi è il campione che più di tutti ha saputo rimanere il giovane che era quando, nel lontano 1993, toccò per la prima volta i campi da gioco della Serie A.


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