Una riforma pericolosa

Creato il 22 marzo 2012 da Propostalavoro @propostalavoro

Il fatidico ultimatum è scaduto: il 20 marzo, come prevedibile, non è stato trovato l'accordo tra Governo e parti sociali sulla riforma del lavoro. Ora la palla passa al Parlamento. Motivo della rottura: la revisione (leggi soppressione) dell’articolo 18. Perché è così importante eliminarlo? Alcuni obiettano che l’articolo 18 è un’anomalia tutta italiana e che occorre abolirlo per metterci al passo con gli altri Paesi dell'UE ("ce lo chiede l'Europa" è il mantra che vanno ripetendo alcuni). Ma già in precedenza, abbiamo sottolineato la debolezza di questa tesi: licenziare è più facile in Italia che in altri Paesi, dove l’economia è in ripresa, mentre da noi è in picchiata. Altri sostengono che bisogna porre fine al dualismo tra tutelati e precari. Iniziativa lodevole, se non fosse per il modo in cui vogliono realizzarlo: le tutele e i diritti sono per pochi? Allora, meglio non darli a nessuno! Solo così l'economia ripartirà, dicono.

Ma è davvero così? Siamo tra i PIGS, in piena recessione, per una serie di motivi che nulla c’entrano con i licenziamenti facili: sistema di infrastrutture carente (dalla rete stradale alla banda larga); corruzione dilagante; debito pubblico fuori controllo; sperperi ingiustificati; totale mancanza di innovazione. Questi sono i veri problemi, ormai strutturali, ma che nessuno, nemmeno i tecnici, si decide a risolvere. Si insiste sulla riforma dell'articolo 18, semplicemente perché è la via più facile e veloce, politicamente (nessun partito si riterrà responsabile agli occhi degli elettori, visto che la riforma è nelle mani di un governo di tecnici) ed economicamente (non serve che lo Stato investa un centesimo per attuarla), ma che alla lunga porterà più danni che benefici. Questo perchè il licenziamento diverrà non più un accessorio del sistema lavoro, ma il fulcro dello stesso. Ho la libertà di licenziarti? Ho quindi la libertà di importi più ore di lavoro, più straordinari e, soprattutto, uno stipendio più basso. Ecco, quindi, quello che sembra il vero obiettivo di tanto accanimento sull'articolo 18: la riduzione del costo del lavoro ritenuto, a torto, troppo alto. A torto perchè, paradossalmente, abbiamo, oltre agli stipendi, anche il costo del lavoro tra i più bassi d'Europa. Il colpevole di questo paradosso? La pesante tassazione che, per esempio nel caso dei redditi da lavoro dipendente, si stima che raggiungerà la soglia del 45% nel 2012, ma visto lo stato di crisi e il macigno di un debito pubblico che ha pochi eguali al mondo, di abbassare le tasse, il Governo non ne vuole sapere (austerità e rigore sono le parole d'ordine). E se non è possibile abbassare le tasse, ecco allora la strada facile: abbassare i salari.

Ci sono aziende, come ad esempio il gruppo Marcegaglia, che vogliono percorrere questa strada che, però, non potrà portare nulla di buono. A perdere, infatti, non sarà solo il lavoratore, ma il Paese stesso: il livello dello scontro sociale diverrà intollerabile; l’impoverimento sarà generalizzato; le stesse aziende, a causa dello scarso potere d'acquisto degli italiani, perderanno clienti e fatturato. Sarà un processo lungo, ma inesorabile, che stiamo già sperimentando grazie al sistema del precariato: stipendi bassi e contratti precari = consumi ridotti = crisi economica e sociale. Avremo, inoltre, un graduale decadimento della stessa capacità produttiva del Paese. Con una forza lavoro stremata e impoverita (orario di lavoro sovrabbondante, stipendio ridotto e la spada di damocle del licenziamento sulla testa) e aziende che non investono, la superba qualità artigianale del made in italy, vanto del nostro Paese, invidiataci da tutto il mondo, tenderà a sparire, appiattendosi sul cosiddetto modello cinese: tanta quantità, ma qualità quasi inesistente. Mancando gli investimenti, mancheranno le innovazioni (cioè prodotti e servizi migliori di quelli della concorrenza) e senza innovazioni le aziende nostrane sono destinate a perdere terreno nella gara di sopravvivenza del mercato globale.

Un quadro a tinte fosche, ma tristemente realista: si esce dalla crisi favorendo gli investimenti, ad esempio, con la detassazione degli utili aziendali reinvestiti; favorendo la ripresa della domanda, ridando potere d'acquisto agli italiani, ad esempio, con la riduzione del carico fiscale sui salari; favorendo lo sviluppo di nuove imprese e il rafforzamento di quelle esistenti, ad esempio, snellendo una burocrazia oppressiva e costosa e facilitando l'accesso al credito (a proposito: che fine hanno fatto i miliardi di euro, prestati dalla BCE alle banche italiane?).