"Una rivista, un laboratorio" di VALERIA CICALA e VITTORIO FERORELLI
Creato il 02 giugno 2011 da Caffeletterariolugo"Una parola dopo l’altra". Il titolo di questo volume è forse quello che meglio può sintetizzare il lavoro di una redazione. Il cammino che porta a preparare il fascicolo di una rivista viaggia sul filo delle parole: quelle che accompagnano lo scambio di idee tra i redattori, quelle che si appuntano durante i contatti con gli autori, quelle che prendono forma nelle scritture dei vari contributi. Un privilegio della nostra professione è proprio questo: la possibilità di incontrare persone diverse e conoscere il loro linguaggio, che è soprattutto quello degli esperti e degli specialisti delle molteplici discipline che compongono la realtà dei beni culturali, ma anche quello di chi proviene da altri mondi e quello dei giovani che collaborano con noi nel corso della loro formazione.
Parola dopo parola. Nasce così anche un’intervista: un modo di raccontare esperienze, ricerche, progetti e metodi di lavoro attraverso un dialogo in presa diretta, sempre molto coinvolgente per chi lo sperimenta. La conversazione offre la possibilità di cogliere una persona sotto il profilo intellettuale, ma non solo: riesce a intercettare frammenti di carattere, di empatia o di ritrosia, che la tratteggiano anche al di là del suo ruolo. Così, mentre si preparava il volume che ha riproposto alcuni dei testi pubblicati dalla rivista “IBC” nei suoi trent’anni di vita, un’altra raccolta cresceva, quasi autonoma: quella delle interviste. E ancora una volta il nostro coeditore, Bononia University Press, ha dimostrato interesse per un libro che selezionasse alcune di queste parole e di queste voci.
Voci che durante la presentazione al Caffè Letterario di Lugo hanno trovato tre interpreti straordinari in Daniele Serafini, poeta e direttore del Museo comunale “Francesco Baracca”, Giuseppe Masetti, storico e direttore della Biblioteca comunale “Fabrizio Trisi”, e Giuseppe Bellosi, poeta e direttore della Biblioteca comunale “Carlo Piancastelli” di Fusignano. Molti i personaggi e tante le cose dette durante la serata, e l’esito non poteva essere diverso, vista la ricchezza dei rapporti e le differenti aree di lavoro dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna: anche per questo si è pensato di mettere in evidenza, in ogni intervista, una parola particolare. Un modo giocoso per guidare il lettore durante la sua navigazione, magari per stimolarlo a trovare un lessico più vicino alla sua sensibilità, invitandolo a interagire con il testo e a ricondurlo a sé.
Se lo scambio verbale “faccia a faccia” è la caratteristica di questo libro, l’incontro imprescindibile per avviare la conversazione con il lettore non poteva che avvenire nello studio del professor Ezio Raimondi, direttore della nostra rivista e presidente dell’Istituto. Intervistare lui, il nume tutelare di un modo profondamente etico di vivere la cultura, ci è parso il viatico migliore. Lavorare al suo fianco è un altro dei nostri privilegi e non il più piccolo. Per ringraziare Claudio Nostri e Patrizia Randi, splendidi padroni di casa dell’Hotel Ala d’Oro, gli amici che erano con noi al tavolo e tutti i lughesi che hanno partecipato alla serata, vorremmo proporre loro, una dopo l’altra, le parole del nostro appassionato maestro.
Professor Raimondi, come ricorda il suo esordio all’Istituto per i beni culturali, all’inizio del 1993?
“Al mio arrivo in Istituto, provenivo da un’esperienza positiva, la costruzione di una casa editrice come il Mulino. In una delle mie prime dichiarazioni, di fronte a sguardi che tradivano un certo scetticismo, mi augurai che questa nuova vicenda potesse essere simile, in qualche modo, a quella conclusa: un’esperienza di tipo universitario, eppure realizzata al di fuori dell’istituzione accademica, con una struttura che rispondeva molto meglio e che offriva garanzie di risultati più sicuri. Quando iniziai, l’Istituto veniva da una pausa di difficoltà, qualcuno pensava addirittura che si dovesse chiudere e, dunque, il primo problema che mi posi fu rianimarlo. Non senza un paradosso: dovevo farlo ricorrendo alle categorie che andavo ricavando dall’Istituto stesso. Ma questa era appunto la garanzia che l’IBC non era morto e che si trattava soltanto di farlo funzionare meglio.
Quando arrivai, i singoli operavano soprattutto nel chiuso delle loro competenze individuali. Prevaleva un’interpretazione personale del lavoro, per cui l’Istituto non era un laboratorio comune, dove le diverse voci e le diverse competenze convergessero insieme, dove la concorrenza consistesse nel dare il meglio di sé perché il meglio di sé diventasse patrimonio comune. D’altro canto, questo è uno dei caratteri veri dell’Istituto: il lavoro è sempre fortemente personalizzato dal fervore e dalle competenze dei ricercatori che vi attendono, e quindi, da questo punto di vista, l’Istituto coincide con il singolo. Ma il singolo, poi, deve sentirsi parte di una comunità, deve interessarsi anche del lavoro di chi gli sta vicino. Mi viene in mente ciò che dichiarava un teorico del teatro: una parte la si conosce bene, davvero, se si conoscono bene anche tutte le altre. Qualcosa di simile doveva accadere pure nell’Istituto, e questa è stata una delle battaglie. L’obiettivo ideale era un laboratorio concorde di forze plurali, che tuttavia non si ignorano a vicenda. Non dico che la battaglia sia stata vinta, ma certo, rispetto alle divisioni riscontrate in altri tempi, l’idea comunitaria ha ripreso piede e anche la rivista ne è una testimonianza”.
Come ebbe inizio il suo impegno alla direzione di “IBC”?
“Quando arrivai, uno dei problemi aperti riguardava proprio la rivista, che si era interrotta. Per una serie di ragioni, il consiglio direttivo decise che valeva la pena di riprendere l’iniziativa. Occorreva quindi mantenere una continuità e, nello stesso tempo, trovare una tonalità diversa. Poiché venivo da un’esperienza tecnica come storico della cultura, mi sembrò che una delle linee su cui sviluppare la rivista consistesse nel continuare le vecchie tematiche, inserendole però in una teoria: i beni culturali intesi come una forma concreta di cultura, che fa parte della nostra tradizione e che definisce, probabilmente più che in altri Paesi, la nostra identità spirituale e civile.
Come coefficiente non secondario di questa teoria della cultura, recuperai dunque l’idea di enciclopedia e da qui nacque il problema del rapporto con le immagini, problema che avevo già affrontato nella mia esperienza di piccolo studioso di storia della letteratura italiana. Fu quella una delle vie attraverso cui si cercò di stabilire un tono che segnasse la continuità col passato e nel contempo un passaggio al nuovo, legato anche all’arrivo di generazioni più giovani. L’obiettivo di fondo, come ho detto, era mobilitare tutte le forze dell’Istituto perché si sentissero partecipi anche del lavoro della rivista, e non la vivessero come una coda laterale, ma come un punto di incontro in cui si unificavano le esperienze, si creavano convergenze tra ambiti di lavoro diversi, si realizzava un linguaggio comune.
Anche qui, l’ideale sarebbe che tutti i ricercatori collaborassero alla pari, e che quindi la rivista riproducesse la situazione dell’Istituto. Non dico che vi sia sempre una piena equivalenza, ma, di certo, la vita, il sangue stesso dell’Istituto passano continuamente nella rivista, più di quanto non accadesse in passato. Io provengo dall’esperienza del lavoro editoriale, un lavoro in cui molte volte si procede soltanto collaborando: si accettano dei criteri condivisi e l’uno corregge il lavoro degli altri, senza che cancellare una virgola sia considerato un atto di lesa maestà. Una rivista è anche questo, una palestra in cui esercitarsi a lavorare insieme”.
Durante la sua direzione, una delle scelte fondamentali della redazione ha modificato il rapporto tra percorsi fotografici e scrittura: le immagini, non più apparati didascalici o decorativi, hanno acquisito un valore autonomo. Una scelta, però, non sempre compresa e condivisa: che cosa l’ha convinta a mantenere questa impostazione?
“Si partiva da una premessa: non ci sono soltanto i temi culturali della tradizione, ma anche quelli legati ai nuovi linguaggi, e uno di questi è certamente la fotografia. Presone atto, anziché essere relegata a una dimensione servile, la fotografia doveva diventare un discorso in sé stessa, un capitolo che si svolgeva lungo ogni numero della rivista. Se si analizzano i primi fascicoli in cui questa convinzione si è affermata, si vedrà che in effetti la mira è stata aggiustata a poco a poco. Lentamente, quella che all’inizio era appena una via aperta è diventata una strada sempre più sicura.
Tra una concezione didascalica della fotografia e il suo riconoscimento come linguaggio nuovo, del resto, c’è una differenza sostanziale: da un discorso in sordina, che ogni tanto si alza a seconda della qualità delle immagini, si passa a una voce piena, che parla dentro la rivista e che aggiunge una competenza moderna a quelle antiche. Ho già accennato al cambio generazionale e all’importanza di questo apporto nel rinnovare lo sguardo: l’occhio è un’entità culturale che si definisce e si modifica di continuo, anche quasi in ordine fisico. In questi giorni mi è capitato di rileggere una pagina di uno dei più grandi storici dell’arte, Heinrich Wölfflin, l’autore di quella che in modo piuttosto riduttivo è stata definita una ‘teoria della visibilità’; vi ho trovato questa frase: ‘L’occhio abbraccia tutto il corpo’. Mi sono fidato delle nuove generazioni che assumevano la responsabilità operativa della rivista, e la freschezza della loro percezione è diventata tutt’uno con la buona riuscita della nuova formula”.
Rispetto alla sua esperienza di docente universitario e di critico della letteratura, cosa significa scrivere di beni culturali? E cosa comporta dirigere una testata che, per linguaggi e contenuti, deve rivolgersi a degli specialisti, ma vuole anche farsi leggere da un pubblico più ampio?
“Potrei rispondere dicendo che quello che noi chiamiamo un insegnante è sempre un mediatore di linguaggi. Non è un volgarizzatore, traduce delle ragioni tecniche specifiche in considerazioni che valgono in un senso più generale. L’insegnante che fa lezione si trova di fronte a questo doppio compito: creare una specificità di competenze, ma nello stesso tempo aprire il suo linguaggio. Un linguaggio che, anziché chiudere il discorso, inviti il nuovo ricercatore a fare esperienza. Da questo punto di vista, quindi, era una sorta di vocazione pedagogica quella che mi invitava a tentare l’esperimento della rivista.
Da vecchio emiliano sono sempre partito dall’esperienza diretta delle cose, e dalle cose che si pongono come soluzione diretta ai problemi. Quindi, arrivando all’Istituto, cercando di entrare in un universo che conoscevo soltanto di sfuggita, mettendomi al centro della prospettiva anziché alla periferia, uno dei problemi posti dalla rivista era proprio questo: come aprire i discorsi più tecnici verso una dimensione più ampia. D’altro canto, anche la teoria della cultura di cui parlavo deve valere come esperienza che non chiude le situazioni ma le apre, deve rivolgersi all’uomo comune e farlo partecipe, in qualche modo, di alcune delle categorie che regolano lo statuto e il codice di quelli che chiamiamo i beni culturali.
Fu quindi una sorta di prova e per affrontarla venne subito l’aiuto dei collaboratori dell’Istituto, che nella propria esperienza avevano già assunto e in qualche modo risolto il problema, poiché per un verso erano degli specialisti ma per un altro trasmettevano quei problemi specialistici perché diventassero problemi comuni. E nel momento in cui si poneva la questione dei beni culturali come elemento identitario della nostra comunità nazionale, ne veniva la sfida a far sì che questo discorso, anziché svolgersi in un ambito specialistico, diventasse, senza divenire generico, l’argomento di una cultura generale. Una sfida, quella di raccontare ambiti particolari oltrepassando i confini disciplinari, non molto diversa, in fondo, da quella a cui incitava Warburg esortando a ignorare i ‘custodi di Sion’.
Per questo, sul piano concreto, insisto nel dire che parlare dei beni culturali significa assumere un discorso di tipo letterario in funzione di una questione che non è soltanto di letteratura. Per rinunciare alle tentazioni dello snobismo e tradurre invece dei problemi specifici in argomenti di natura generale, che non riguardassero più soltanto il gusto, ma anche quella che si potrebbe chiamare un’etica pubblica, ho cercato di far sì che nel racconto si adottasse un certo linguaggio, una certa chiarezza, entro determinati limiti anche una certa eleganza. Volta per volta, poi, ogni numero della rivista pone i suoi problemi specifici: è un individuo unico, in cui non si ripete meccanicamente uno schema già dato. La formula va di volta in volta concretata in un oggetto e in un carattere particolari”.
Dal 2000 anche “IBC” ha una versione elettronica, consultabile in rete. Leggere sulla carta, sfogliando con le dita delle pagine che raccolgono insieme immagini e scrittura, avrà un senso anche in futuro?
“Partirei da una domanda generale: quando nascono nuove tecniche, quelle vecchie vanno necessariamente accantonate o possono continuare a vivere? Non essendo un apocalittico, sono dell’avviso che le forme antiche in molti casi coesistono con quelle moderne, non come ripetizioni blande ma come risposta a certe esigenze particolari. Da vecchio lettore non riesco a capire come si possa maneggiare una lettura senza toccare un libro, ma nello stesso tempo sono pronto a prendere atto dell’esperienza degli altri. Ecco perché sarei per una soluzione intermedia: far coesistere le forme, riconoscendo a ciascuna di esse la propria specificità. In un mondo plurale non vale il principio autoritario di un linguaggio che assume su di sé tutti gli altri: tutti i linguaggi coesistono e in questo consiste l’enciclopedia del sapere.
Va poi fatta una considerazione molto più elementare. Più che al movimento, l’attenzione si lega alla pausa, alla sosta, e la fotografia è, per definizione, qualcosa su cui si posa lo sguardo, su cui si riflette, si medita. Di là da un atteggiamento puramente contemplativo, quindi, la fotografia è un esercizio permanente di attenzione, e in questo si contrappone all’immagine televisiva, che passa e sulla quale non ho il tempo di ritornare. La fotografia, insomma, permette di fare un’operazione simile a quella della lettura. Quando leggo, in realtà, rileggo, e secondo qualcuno la vera lettura di un testo è la sua rilettura; davanti a una fotografia succede qualcosa di analogo: guardo un’immagine e la torno a guardare, rifletto e medito, cerco di stabilire se quell’immagine mi restituisce, della realtà, qualche dettaglio che altrimenti non avrei percepito. E in questo modo l’occhio mi si apre.
La fotografia apre l’occhio del lettore, lo induce a guardare meglio, a fermarsi sul particolare, a isolare gli elementi, mantenendo però sempre il riferimento all’immagine complessiva. È ciò che accade nella rivista: l’occhio, aperto dalla fotografia, si sposta dalle immagini ai testi, e viceversa, in una sorta di reciproca illuminazione tra i due piani del racconto. Piani che rimangono diversi, talvolta vicini, talvolta anche molto distanti, ma che scorrono, per così dire, sotto lo stesso cielo. Questo dialogo, che mette insieme percezione e riflessione, è ancora un ottimo esercizio per imparare a rapportarsi al mondo, ai paesaggi, alle cose che ci circondano. E anche agli altri esseri umani”.
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