In cinque anni, però, ne era passata di acqua sotto i ponti del calcio continentale: il livello dei cosiddetti danubiani era altissimo -Wunderteam austriaco sugli scudi- e lo stesso valeva per gli azzurri, il cui stile di gioco era un po’ una miscela di tecnica mitteleuropea e temperamento tipicamente latino – il tutto valorizzato ovviamente da Pozzo, genio della tattica.[1] Proprio per questi motivi una sfida tra l’Italia campionessa del mondo e l’indiscutibile Inghilterra stuzzicava molti appetiti, tra cui quello di Mussolini: anche se all’inizio della sua dittatura il duce non era interessato al fenomeno calcio, questa partita sarebbe stata un’ulteriore e ghiotta occasione per affermare l’italico prestigio oltremanica (ci si perdoni il retaggio espressivo da Cinegiornale Luce).
Sta di fatto che tra la miriade di inviti a disputare amichevoli dopo la vittoria della Coppa Rimet, gli azzurri avevano ricevuto anche questo, il più importante e prestigioso, contro l’Inghilterra ad Highbury – il celeberrimo stadio dell’Arsenal. A Vittorio Pozzo in realtà l’idea non piaceva, diremmo – magari sbagliando – indipendentemente dal dover giocare a novembre. Qua forse è necessaria una digressione sul mito che si è creato intorno a questo evento: è passato alla storia il fatto che gli inglesi abbiano organizzato la partita a novembre per affrontare gli azzurri in condizioni climatiche a cui non erano abituati, cioè pioggia e nebbia. Ora, il discorso sarebbe valido se stessimo parlando – per assurdo – di una nazionale africana dell’epoca, ma in Italia pioggia e nebbia non ci sembrano condizioni atmosferiche così rare. Fine digressione. Forse Pozzo invece non trovava un senso nel dover disputare questa partita, ci piace pensare che avesse il timore che in caso di vittoria inglese avrebbe perso valore la recente Coppa Rimet alzata dai suoi. Ma a causa del suddetto stuzzicato appetito di Mussolini (che peraltro promise nuove fiammanti Alfa Romeo ai calciatori in caso di vittoria), il c.t. azzurro ovviamente non si poteva esimere dal condurre i suoi a Londra.
La determinazione dei ragazzi di Pozzo ha fatto sì, però, che quegli undici siano passati alla storia come “leoni di Highbury” (peraltro battezzati così dalla stampa inglese) e che questa partita sia diventata leggendaria, una sconfitta celebrata come una vittoria. Ora, il nostro scopo non è certo quello di sminuire quella che per certi versi è stata un’impresa eroica, per come si era messa la partita. Gli azzurri non solo hanno limitato i danni, ma hanno anche rischiato di portare a casa un risultato che avrebbe significato davvero molto per il calcio dell’epoca. Magari, però, dietro al mito che accompagna questa partita da ottant’anni, oltre all’oggettiva prestazione della squadra di Pozzo, c’è anche la macchina propagandistica che caratterizzava quegli anni drammatici – e che, ahinoi, in qualcuno attecchisce anche al giorno d’oggi. Anche per questo la gara è stata disputata, anche per questo è stata al centro dell’attenzione mediatica, e magari anche per questo si citano sempre pioggia e nebbia come condizioni atmosferiche proibitive.
Alla fine, come spesso è accaduto, a cogliere nel segno è stato Winston Churchill con uno dei suoi meravigliosi aforismi, uno dei più famosi: «mi piacciono gli italiani, vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra».
daniele
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[1] Vittorio Pozzo, insieme a Hugo Meisl (allenatore del Wunderteam austriaco), è considerato l’inventore del metodo, un sistema di gioco che si contrapponeva al sistema, ideato da Chapman per il suo Arsenal. Questi due moduli sono stati concepiti dopo l’introduzione della regola del fuorigioco, nel 1925, poiché prima lo schema più gettonato era la cosiddetta “piramide di Cambridge”, numericamente parlando un 2-3-5, con il portiere come fulcro della, appunto, piramide rovesciata. A differenza del sistema (un 3-4-3 ma più precisamente un 3-2-2-3 o WM, vista la disposizione dei giocatori) più basato sul possesso palla a centrocampo, il metodo di Pozzo (2-3-2-3 o WW) prevedeva una sorta di “catenaccio e contropiede” ante litteram. Ne risentiva lo spettacolo insomma, ma non il risultato.