Una scoperta chiamata Joseph Conrad

Da Marcofre

Di Conrad, credo di avere da qualche parte un suo libro che però non ho mai letto. Lord Jim? È possibile.

Qualche mese fa ho approfittato di un’offerta di Garzanti e ho così acquistato “I capolavori” (Social DRM, niente Adobe DRM). Adesso leggo “Al limite estremo”.

Autore per ragazzi? Sciocchezze. E se anche fosse, non è facile scrivere per un pubblico esigente come i ragazzi. Uno strambo come me può apprezzare Thor Vilhjalmsson, che un ragazzo scanserebbe. Col tempo i gusti si modificano. Diventano “sofisticati”, eppure ogni tanto abbiamo il bisogno di qualcosa di più semplice.

E non c’è niente di più difficile della semplicità.

Un pilota vede meglio di un forestiero, perché la sua conoscenza dei luoghi, come una vista più acuta, completa le forme di cose adocchiate fugacemente; penetra i veli di bruma stesi sopra la terra dalle burrasche del mare; determina con sicurezza i contorni di una costa che si stende sotto la cappa di nebbia, le forme dei punti di riferimento semisepolti in una notte senza stelle come in una tomba poco profonda. Riconosce perché conosce già.

Cosa abbiamo qui? Certo, un passo tratto da “Al limite estremo”. Ottimo lavoro non solo di Conrad ma soprattutto del suo traduttore (non so chi sia: sono quattro mentre i racconti della raccolta sono cinque). Però qui non ci vedo solo l’autore che scrive, ma l’autore che scrive e parla di se stesso, del proprio ruolo.

Se sostituiamo “pilota” con “scrittore” e “forestiero” con “lettore”, forse ci troviamo davanti a Conrad che parla del suo ruolo. E del nostro.

Infine, a suggellare il tutto, quel:

“Riconosce perché conosce già”.

A volte, la scintilla scaturisce da un incipit azzeccato. Però non vale con Thor Vilhjálmsson, grande scrittore islandese che usa una prosa ricchissima, maestosa. E la sua traduttrice, Silvia Cosimini, deve aver sudato le proverbiali sette camicie per venirne a capo.

Immagino che succeda perché troviamo nascosto da qualche parte, il cuore dell’autore. All’improvviso, si apre uno spiraglio, e proprio lì capiamo non tanto chi scrive. Quello non sarà mai possibile.
Bensì la sua idea di scrittura.

Dostoevskij ci conduce a spasso per la sua adorata San Pietroburgo nel mese di luglio, sulle tracce di Raskolnikov e della sua impresa criminale. Ce lo presenta mentre scende le scale, e altre scale scenderà, quelle che lo condurranno al duplice omicidio.

Conrad ci immerge in un mondo distante, “esotico” come ancora capita purtroppo di leggere da qualche parte.
Il punto è però un altro.

Ormai conosciamo talmente poco l’essere umano, la sua complessità, che definiamo con termini superficiali l’intento di un autore di esplorare l’animo umano, e lo facciamo solo perché l’ambientazione non è in qualche contea dell’Inghilterra. O della Polonia.

Credo che Conrad si sia preso il compito di ricordare a chi ha voglia di capirlo, quanto è imprevedibile l’essere umano. E nel raccontarcelo, è riuscito pure a rendere più nitida la catastrofe che stava arrivando, e che stiamo vivendo.

L’essere umano era troppo difficile da gestire per l’era mercantile che all’epoca stava arrivando, e che ha bisogno di rapidità e futilità. E si è preferito ridurlo a idea, concetto. A noce vuota da riempire con quello che più piace, fa comodo ed è alla moda.
E questa noce vuota non ha niente di misterioso, basta guardarlo, e lo si capisce. Al massimo sarà necessario “educarlo”, e tutto in seguito procederà all’insegna del progresso.
Joseph Conrad ci dice qualcosa di ben differente.


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