Una sedia alla finestra

Creato il 15 ottobre 2012 da Pecchio @lapitwit

Una mattina di Novembre a novant’anni, il Niccoli lasciò per sempre la sedia accanto alla finestra.

Quella sedia era stata il suo posto di sentinella sul mondo dei giardini, l’unico aggancio con qualcosa di diverso, perché dentro - in casa - da solo, le ore erano sempre le stesse, dall’alba alle quattro del pomeriggio.

Alle quattro infatti, il Niccoli si alzava, andava in cucina a prendere il caffè con i biscotti e poi, lentamente, si spogliava per andare a letto. L’opposta, ma altrettanto laboriosa operazione di vestirsi cominciava invece alle quattro di mattina, col buio fitto: gli ci voleva tanto tempo a causa di una paralisi che l’aveva mezzo bloccato alcuni anni prima. Da allora il suo tempo era regolato da una precisione militare: alzarsi, mangiare, sedersi alla finestra, mangiare di nuovo, poi chiudere la finestra e tornare a letto dopo la breve cena a caffè d’orzo e biscotti.

La guerra era stata l’avvenimento più importante della sua vita: dopo la prima, quella “mondiale” che l’aveva fatto cavaliere, erano venute tutte le altre e lui, obbediente, era sempre partito senza tante storie.

“Che si starà bene in guerra?” diceva. “Eppure, quando ero a casa stavo peggio che da soldato, è tutto dire”.

Da qualche frase in qua e in là, che gli veniva fuori quando era arrabbiato - perché di solito se ne stava in silenzio a guardare fuori dai vetri - si capiva che la sua vita non era stata facile.

Aveva cominciato a combattere fin dai tempi della scuola, una scuola epica, fine ottocento, in cui il maestro era un tiranno che urlava e tirava bastonate senza tanti riguardi e aveva preso in antipatìa proprio lui, il piccolo Niccoli, e gli gridava: “Va’ alla vigna! Va’ alla vigna!” finché un giorno l’aveva accompagnato a scuola inviperito e col prurito alle mani: “Ora mi sente, questo maestro: se continua a dirti di andare via e di tornare alla vigna, mi levo questo zoccolo e glielo tiro nel capo!”

La mamma, pronta a tirare zoccolate al maestro e sicura del fatto suo, era un gigante su cui il ricordo del Niccoli si soffermava con particolare soddisfazione.

“Ero bravo, soprattutto nel fare i conti e quando finì la scuola presi il secondo premio - il secondo, perché il primo andò al signorino…Ma io a quei tempi mi arrangiavo già a lavorare e poi raccattavo gli ossi nei mucchi della spazzatura che era proprio qui, al posto di questi giardini, e li andavo a vendere per qualche soldo…”

Spesso riaffioravano anche i ricordi del lavoro in Francia, ma battute isolate, come fuochi d’artificio, e bisognava intuire tante cose non dette perché a novant’anni si segue un filo interno di memoria e chi sta ad ascoltare resta indietro, nulla da fare.

“Il padrone mi diceva: Bravo, dovrebbero essere tutti come te, che mangi, bevi e lavori. Senza vizi, senza problemi, senza grilli per il capo”.

“Lavoravo, lavoravo tanto e non mangiavo nemmeno la carne, non mi interessava, mi bastava il pane e il formaggio”.

E poi, aveva conosciuto Poincaré. Poincaré, il presidente francese che aveva una villa vicino a dove lui lavorava e ogni volta che lo incontrava, lo salutava con un gesto cordiale: “Ciao, Italia!”

Gli occhi del Niccoli sembravano spilli quando rammentava quell’”Italia” gridato alla sua piccola e magra figura di lavoratore sconosciuto in un paese straniero.

“Capivo tutto quello che mi dicevano, ma non volevo parlare in francese. Non ho mai voluto; per questo non ho mai fatto fortuna”.

In quella terra erano rimasti ed avevano messo su famiglia tre dei suoi figli.

Irrimediabilmente lontani ormai da quella sedia solitaria, affacciata sul mondo dei giardini.

“Non ho mai detto una bugia. Non ho mai fatto del male a nessuno” protestava quando ricordava qualche ingiustizia, qualche offesa che gli pareva di aver ricevuto.

E l’estate seguiva la primavera, e l’autunno, l’estate.

Sul marciapiede sotto la sua finestra, volavano le carte marroncine delle caramelle di rabarbaro che succhiava piano piano durante il giorno. Ogni tanto, quando era più in forma, tirava anche qualche boccata di toscanello, ma un pacchetto gli bastava tre mesi.

Quella mattina di novembre, il dottore lo convinse ad andare per un po’ all’ospedale perché cascava sempre più spesso per terra - giorno e notte - e allora gli toccava urlare: “Aiuto!” finché non arrivavano i vicini di casa a tirarlo su.

Andò, ma solo per poco. “La cura, poi, la faccio a casa. Voglio morire nel mio letto”.

All’ospedale rimase un paio di mesi e da allora non si alzò più.

Quando gli infermieri lo alzavano di prepotenza, si lamentava tanto che, per compassione, qualcuno lo rimetteva a letto di corsa.

“Voglio tornare a casa. Voglio morire”.

I primi tempi, ogni tanto, quando qualcosa non gli tornava, decideva di fare lo sciopero della fame. Inutile pregarlo o tentare di convincerlo.

“No, non mangio, non mangio e non mangio. Perché mangiare? Mi prolungo la vita e la vita per me è solo sofferenza.”

Il giorno dopo, apriva la bocca con appetito e recuperava - un cucchiaio dopo l’altro, senza respirare - il pasto perduto.

Sembrava, a periodi, che tornasse quello di prima, vispo e lucido. Poi, ripiombava sempre più pesantemente in un dormicchiare quasi continuo o in uno stato confusionale.

“Niccoli” lo scuotevano gli infermieri.

“Comandi”! rispondeva pronto, come ai bei tempi in cui era soldato.

Verso la fine cominciò a contare.

Da uno a cento, e poi ricominciava.

Forse tornava alla lontana infanzia in cui era bravo in aritmetica e il maestro irascibile lo tormentava.

I vicini di letto si rammaricavano.

“Stanotte, guardate di dormire, se no non si chiude occhio nemmeno noi”.

E lui: “Ventiquattro, venticinque, ventisei”, accanito come se la sua vita fosse attaccata a quel contare preciso ed ininterrotto.

Un giorno i medici decisero di rimandarlo a casa.

“Non si può tenere in ospedale chi non è malato, c’è bisogno di letti”.

Il Niccoli non era malato, aveva soltanto novant’anni, era solo ed incapace perfino di prendere una caramella di rabarbaro dal comodino. Senza contare le piaghe da decubito.

“Ha bisogno soltanto di assistenza e di affetto” disse la dottoressa, congedandolo.

Non c’era più posto all’ospedale. Non lo prendevano al ricovero perché non era più autosufficiente.

E siccome non era ancora morto, tornò nel suo letto, come voleva.

Fu rincalzato perché non ruzzolasse, ma ormai le gambe se ne stavano ferme, solo ossa e pelle piagata. E si lamentava, sempre più piano in modo da non disturbare nessuno: “Ohi Ohi, uno, due, tre, quattro, ohi ohi sessantaquattro sessantacinque…”

La bocca si apriva ogni giorno sempre meno: dal semolino con la carne dentro si scese ai succhi di frutta, poi a qualche cucchiaino di caffè, al cotone bagnato nell’acqua, da strizzare tra le labbra riarse.

“Quanto camperà ancora? - diceva la gente. “Chi lo può dire? ha il cuore buono, i polmoni buoni, nemmeno un filo di catarro…”

Fermo, rattrappito nel suo letto grande, sotto l’immagine del Cristo in cui era infilato l’olivo benedetto, il Niccoli tornava, giorno dopo giorno, a riprendere la posizione di quando era ancora nel seno materno.

Stringeva stretta nelle mani la rovescia del lenzuolo e fissava un punto della stanza con gli occhi velati.

Due giorni prima che morisse, arrivò uno dei figli con la moglie.

“Buoni quelli!” aveva borbottato un tempo quando qualcuno gli rammentava i figli e lui se ne stava lì, solo, al suo osservatorio dietro la finestra.

Pensando a loro, scuoteva il bastone, severamente. Il figlio provò a chiamarlo: “Papà, papà”!

Ma il Niccoli non rispose.

Guardava davanti a sé e muoveva piano le labbra, ma non si capiva nulla. Forse, a sforzarsi parecchio, si sarebbe potuto sentire: “Quarantadue, quarantatré…”.

Nicoletta Martiri

CONCORSO LETTERARIO “MILLE PAGINE” 1994

Concorso Nazionale Di Poesia - Prosa - Drammaturgia

3° Premio Prosa

Palcoscenico