Una storia di calcio internazionale

Creato il 11 aprile 2013 da Lundici @lundici_it

Sono arrivato a Genova nell’agosto del 2009 per uno scambio accademico (*) di sei mesi alla facoltà di Lettere dove, dopo aver cercato un corso di letteratura italiana contemporanea, mi sono iscritto ad un corso nel quale ho letto “La Divina Commedia” per la quarta volta.

Studenti in relax alla Universidad de los Andes, Bogotá (Colombia)

Venivo da Bogotá, la capitale della Colombia, dove sono nato e dove mi sono laureato in Lettere all’Università de Los Andes (la più moderna e costosa del paese, la cui retta sarò costretto a pagare finché non sarò in un ospizio) e, siccome quella era la mia seconda volta in Italia, non mi aspettavo di trovare nessun grande cambiamento verso la modernità.

Sapevo che, in generale, non era una buona idea entrare negli ascensori italiani – tutti mi sembravano costruiti prima della nascita di Leonardo e per questo preferivo prendere sempre le scale – sapevo che, per la maggioranza delle istituzioni con cui dovevo confrontarmi, il concetto di email era tanto pazzesco quanto il teletrasporto (l’Università mi ha inviato un’unica mail, arrivata nel 2011, due anni dopo la mia partenza, chiedendomi se mi stava bene una riunione con un professore nel dicembre 2009) ed ero cosciente dell’amore italiano per i documenti stampati e firmati a mano (mi ero allenato per quindici anni in una scuola italiana a Bogotá).

Nonostante questo, seppure sapevo che sarebbe potuto capitarmi che, all’improvviso, mi venisse richiesto un qualche documento mai menzionato in precedenza, prima di iscrivermi all’università, prima di trovare un posto dove vivere, prima di ottenere un permesso per stare in Italia, ho trovato una squadra per giocare a calcio.

Ho pensato che, lontano dalla mia famiglia, dai miei amici, dalla mia lingua e dalle mie fonti di sostentamento economico, il calcio mi avrebbe dato un respiro, qualche equilibrio, qualche messaggio che mi diceva che la vita era la stessa, soltanto vissuta in un altro posto. E poi, il calcio è lo sport più popolare del mondo. È stata, in effetto, una buona idea per trovare nuovi amici.

Ho conosciuto un francese nell’ostello che poi ha conosciuto un tedesco ed entrambi hanno preso un appartamento in Via Assarotti, dove un finlandese tifoso della Roma e di Litmanen (ex-calciatore, considerato il miglior giocatore finlandese di sempre, NdT) aveva già prenotato una stanza e così, un pomeriggio, il tedesco ci ha chiesto se volevamo far parte di una squadra nel campionato Erasmus di Genova. Abbiamo detto di sì. Come vivere senza calcio nelle nostre vite? Inconcepibile.

Si è così formata la nostra squadra di stranieri. Il nostro nome era: L’IT Genovese, l’International Team Genovese (il tedesco non sapeva che l’Inter in verità si chiama “Internazionale”). I nostri colori: magliette azzurre chiarissime, con qualche discoteca locale che ci faceva da sponsor.

Le partite, a sette giocatori per squadra, si svolgevano in un campo in montagna, in un quartiere il cui nome dimenticavo sempre e dove sembrava essere in perpetuo arrivo l’inverno. Si giocava di notte, non so come, perché in tutti i ricordi che ho di quelle partite, eravamo al buio, con il desiderio di avere una giacca addosso, o almeno dover fare un lungo scatto sulla sinistra per riscaldarci. Ma almeno le nostre magliette erano così azzurre che le vedevamo in mezzo all’oscurità. Per allenarci, avevamo trovato un campo di calcetto (a cinque) in Corso Italia, quasi sul mare, presso l’appartamento che avevo trovato da condividere con una ragazza russa che qualche volta mi parlava in tedesco e una francese che, come me, non riusciva a rispettare i turni di pulizia che ci aveva messo a punto la nostra coinquilina dell’est.

Giocavamo una volta alla settimana, di notte, in mezzo alla solitudine di Boccadasse (antico borgo marinaro della città di Genova, che fa parte del quartiere di Albaro, NdT) e, ogni volta, essendo io un ragazzo di montagna (Bogotá è a 2600 sul livello del mare), la luce della luna sopra le onde del mare catturava la mia attenzione e la mia squadra subiva un gol. Poi ci facevamo una pizza in Via Assarotti per discutere della nostra tattica, sotto la maglietta della nazionale finlandese di Litmanen che il finlandese aveva appeso al muro e in mezzo a un numero non raccomandabile di bevande alcoliche.

Abbiamo completato la squadra con un belga, due francesi che sembravano personaggi di Astérix e due italiani, amici della coinquilina polacca di Via Assarotti, che giocavano in una qualche squadra vicina di serie C2 o qualcosa del genere.

Scorcio di via Assarotti a Genova

Durante la nostra prima partita, cinque secondi dopo l’inizio, uno degli italiani era già a terra dolorante, tenendosi la gamba come se, all’improvviso, una bomba gliel’avesse quasi staccata dal resto del corpo. Il resto della squadra e gli avversari ci guardavamo confusi, perché non avevamo visto nessun contatto, ma l’arbitro decise di darci un fallo e di ammonire il giocatore responsabile di quella strage e quell’incidente diplomatico internazionale.

Qualche giocatore dell’altra squadra disse, in spagnolo: “Benvenuti nel calcio italiano!”, ma in quel momento semplicemente volevo giocare, e mi sembrò che la miglior idea fosse non tradurre a tutti gli altri.

Abbiamo vinto, ma a che prezzo? Ogni volta che gli italiani giocavano con noi, ogni tre minuti c’era un’opera di teatro sul campo (e un fallo per noi), e ogni cinque, un dibattito con l’arbitro o un giocatore dell’altra squadra.

Una volta, abbiamo giocato contro un’altra squadra che aveva un italiano, un siciliano. Dopo cinque minuti di gioco, i due italiani si urlavano, faccia a faccia, in dialetto, in mezzo alla perplessità generalizzata dei presenti che non capivano niente, oltre a un “belìn!” qua e un “maccarruni!” là.

Nonostante questo, l’italiano era il nostro miglior giocatore perché, anche se non gli saltava mai in testa di passare la palla, sapeva fare gol. E poi, non avevamo altri giocatori, e anzi era simpatico fuori dal campo e quindi continuavamo a chiamarlo.

Io provavo a trovare qualche punto di vista diverso, non volevo cadere nello stereotipo. Magari in Italia il calcio era più sottile, meno fisico, più mentale, meno aggressivo. Non volevo ritornare in Colombia e raccontare che in Italia, come si dice dappertutto, si gioca a ingannare l’arbitro. Volevo trovare qualche maniera per difendere la Serie A, i suoi giocatori e i suoi tifosi che giocavano a calcetto in mezzo alla settimana, e replicare a tutti i ‘fanboys’ della Premier League, dove il calcio “Sì, è divertente”, “Sì si gioca bene”. Avrei voluto dire che “difendere è anche un’arte”, “ci sono un sacco di gol nel calcio italiano”, non lo so, qualunque cosa che potesse terminare con un “guardate partite di Serie A con me, per favore!”. Ma mentre pensavo queste cose, il nostro italiano era per terra un’altra volta, come fosse stato fucilato.

La storia dell’IT Genovese è finita alle semifinali, in una partita nella quale, dopo circostanze straordinarie, ho dovuto fare il portiere nel primo tempo. Ho subito un unico gol, dopo una prestazione stellare. Ma mi preoccupava vedere che i miei compagni non avevano tirato in porta neanche una volta. Ho allora chiesto un cambio per giocare da trequartista e provare a pareggiare, anche se la mia squadra mi chiedeva di rimanere indietro a proteggere la nostra porta.

È stato un disastro, non ho completato un singolo passaggio e il secondo gol contro di noi è stato colpa mia. Dopo la partita, negli spogliatoi, dove gli europei si denudavano sempre, mentre io cercavo come coprirmi, mi chiedevo “Cazzo, ora cosa penseranno questi del calcio colombiano?”.La risposta, certamente, doveva essere: niente, non ci pensavano per niente.

*Mi sono ubriacato in tutti i modi possibili con gli Erasmus della città, questo voglio dire con “scambio accademico”.

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