Una strega buona?

Creato il 20 dicembre 2012 da Serenagobbo @SerenaGobbo

Posto qui il racconto risultato tra i vincitori del concorso CARATTERI DI DONNA 2012/13 di Pavia (me lo hanno appena comunicato) e che verrà pubblicato in un’antologia apposita all’inizio del prossimo anno:

Ci sono molti tipi di streghe, perché dipende dalla specializzazione che scelgono. La mia antenata Uberta era una strega tessitrice: distribuiva incantesimi a destra e a sinistra per mezzo dei tessuti che preparava al telaio.
Trovo scorretto chiamare strega una donna che usa la magia per guarire, ma nel ramo femminile della famiglia si è tramandata la leggenda di Uberta come una donna al limite estremo della bruttezza: chiamarla fata sarebbe stato ancora più scorretto.
A quel tempo le streghe erano tollerate come un male necessario: i loro nomi serpeggiavano di bocca in bocca quando la medicina ufficiale chinava la testa e i gesti di riconoscenza che seguivano le guarigioni dovevano essere il più discreti possibile.
Non starò ad elencare gli innumerevoli prodigi di Uberta, perché allora dovrei narrare delle magie di tutte le donne, madri e figlie, dell’infinita catena umana che mi lega alla nascita del mondo. Dirò solo che se un parto si rivelava più pericoloso del solito o se un eccesso di catarro rischiava di aprire le porte della tomba, le coperte e gli scialli di Uberta ripristinavano gli equilibri: i bambini nascevano senza pianti e i polmoni si spalancavano come corolle all’alba. La mia bis-bis-bisavola tornava poi alla sua baracca dove il giorno dopo, sulla soglia, compariva un cesto di uova, una zucca, un pollo.
I paesi accettavano le streghe solo se si rendevano utili e se non pestavano i piedi a nessuno. Uberta si attenne sempre a questo codice non scritto. Tranne una volta.
Lui era un giovane cavaliere appena tornato dalla crociata. Portava sul corpo le cicatrici dei mori e nell’anima gli squarci dei ricordi. Uberta lo trovò per terra nel bosco, urlante di incubi, col cavallo che osservava da lontano quel padrone così bizzoso. Era l’alba di un inverno impietoso: il cavaliere era coperto di sudore già brinato. Non apriva gli occhi, ma continuava a tossire e urlare come se dentro di lui fosse stato acceso un falò.
Uberta conosceva bene quel bosco: ci andava a raccogliere le ossa degli elfi che, tagliando e limando, trasmutava in piccoli bottoni per taumaturgici porte-enfant. Quando vide il cavaliere che scalciava sul sentiero, non perse tempo: si avvicinò alla vecchia quercia dal tronco cavo; là dentro c’era il ragno azzurro che le forniva il materiale per i tessuti. Ebbe con lui un breve dialogo – poche parole sconosciute ai più – e poi infilò una mano nel tronco: la ritrasse portandosi dietro un sottilissimo filo di seta lucente. Con due dita lo sollevò sopra la testa e poi lo lasciò fluttuare nell’aria. Quello non solo non cadde, ma nutrendosi della bava del ragno, si allungò in un garbuglio fosforescente che poi, con un fruscio garbato, si compose in un tessuto che della perfezione possedeva ogni angolo e lato.
Quando Uberta pose quella coperta sul cavaliere, lui si calmò di colpo, come se qualcuno gli avesse iniettato nel corpo un distillato concentrato di valeriana. Dormì molte ore di seguito con la strega accanto che lo vegliava. Aprì gli occhi che i gufi erano già svegli.
“Ah! Qual abominio commise tua madre per dare alla luce una figlia così brutta?”
Alla faccia della cavalleria! Ma Uberta, che nelle lunghe ore di veglia aveva fatto in tempo ad ammirare le sue ciglia brune e il naso egiziano, non si indignò per quel commento che non si discostava molto dalle parole a cui era abituata.
“Mio gentile… signore! È d’uopo ringraziare colei che si prende cura di un malato sconosciuto, tanto più se questo sconosciuto l’ha distratta dalla quotidiana raccolta erbacea con cui ella si nutre.”
Lui si accorse della coperta in cui era avvolto: leggerissima e trasparente, non poteva essere il risultato di mani umane.
Non ci mise molto a innamorarsi della mia antenata. Da quel giorno le visite alla capanna divennero frequenti, e il legame che li univa sempre più forte. Ma l’amore ha una componente di origine umana che è soggetta alle brutture del mondo.
Il cavaliere era il fratello di una marchesa molto gelosa. Quando le arrivò all’orecchio la notizia della relazione clandestina, le damigelle persero ogni controllo sui suoi capelli, che si increspavano e si ribellavano ad ogni tentativo di trattamento. Donna Ada, questo era il suo nome, si attaccava agli oggetti e alle persone come una ventosa; sembrava avere i palmi delle mani impastati di qualche misteriosa colla che nessun solvente poteva sciogliere. E se qualcosa, o qualcuno, le veniva sottratto, allora ne soffriva come se lo strappo le avesse scorticato la pelle lasciandola in carne viva.
Non fu difficile separare i due amanti: le bastò scegliere una guerra, una delle tante che scuotevano quei tempi, e lasciare che il fratello fosse sopraffatto dal suo senso del dovere. Donna Ada era armata di molte parole: le sceglieva con una minuzia luciferina, e quelle si insinuavano nella vittima e lavoravano dal di dentro. Il fratello in poche settimane, posto di fronte a quelle armi d’aria, divenne come un corpo d’annegato, col ventre che si muove e sussulta per gli osceni traffici che si volgono sotto pelle. Non poteva resistere. Partì senza neanche salutare Uberta, che seppe di lui solo leggendo nella trama dei suoi tessuti.
Passarono gli anni. Donna Ada riusciva a tenere lontano il fratello inviandolo da una guerra all’altra con una facilità che sconfinava nel ridicolo: a volte non serve la magia per esercitare un potere sugli uomini.
Uberta continuava con la sua vita, le sue guarigioni, la sua solitudine. Aveva affinato l’abilità al telaio e i suoi tessuti erano sempre più richiesti. Ma erano inzuppati di lacrime.
Un giorno andò da lei la fantesca di donna Ada.
“Il mio bambino ha dieci anni e ancora non parla. Ti prego, dammi qualcosa che gli eviti una vita disgraziata!”
Uberta aprì una cassa. Era piena di coperte arabescate con delicati ricami. Ne scelse una e la consegnò alla donna.
La guardò allontanarsi con una sorta di ribrezzo. Non era una sensazione infondata. La fantesca era stata mandata da donna Ada con una scusa: donna Ada voleva una delle coperte di cui tutti elogiavano le magnificenze, non importava se a tesserle era stata la sua antica rivale. Ma quando la serva le appoggiò il tiepido velo sulle spalle, al solo contatto con la pelle la coperta si sciolse e colò in uno stillicidio di lacrime.
Lo scoppio d’ira fu tremendo. Ne pagò le conseguenze la fantesca che subì il bastone gridando la sua innocenza. Donna Ada, con le lacrime di strega che le si asciugavano addosso, gridava oscenità e maledizioni come uno dei suoi stallieri. Ma man mano che la collera la lasciava senza fiato, le parole che le uscivano di bocca erano sempre meno decifrabili. Prima si confusero le vocali, e poi le consonanti caddero come morte: donna Ada, che della parola aveva fatto un’arma temuta e sopraffine, si ritrovò con una lingua così grossa che quasi non riusciva a chiudere la bocca.
Tutte le visite a corte e le feste furono cancellate. Donna Ada si rinchiuse in un’ala abbandonata del palazzo. Potevano visitarla solo la fantesca che la serviva e il medico di corte, che aveva inventato per lei un complicato sistema di tubi per farla mangiare col naso senza soffocare.
Fu così che donna Ada dimenticò il fratello. E il cavaliere, non più trattenuto lontano dalle parole e dai traffici della sorella, tornò da Uberta.
Fossi stata al posto della mia antenata, avrei lasciato donna Ada a rinsecchire tra quattro mura, a purgare col silenzio tutte le parole maligne che aveva pronunciato. Ma Uberta era di cuore morbido e si lasciò convincere dal suo uomo a farla guarire. Le mandò uno scialle. Lo aveva tinto con l’indaco dell’arcobaleno e nell’ordito erano intrecciate piume di usignolo che cangiavano sfumatura in base all’ora del giorno.
Tutti i visi si volsero al passaggio della fantesca che portava sulle braccia il capolavoro; era impossibile guardare altrove, gli occhi erano attirati dalla luce soffusa che scivolava dalle mani della serva. Donna Ada, che ormai temeva di doversi far tagliare l’abominevole pezzo di carne che le era cresciuto in bocca, sbalordì alla vista del dono.
Ma qui, per uno di quei capovolgimenti che accadono quando ci sono donne di mezzo, il lieto fine che sembrava vicino anche per la marchesa, svaporò.
Donna Ada rifiutò lo scialle e la magia che prometteva.
Scalpitò come un’ossessa davanti alla serva che voleva appoggiarglielo addosso, finché riuscì a farlo cadere nel fuoco del camino. Lo scialle, bruciando, emise un delicato profumo di rosa.
I motivi di questa reazione nessuno li ha mai saputi. Secondo alcuni aveva paura di un altro maleficio; secondo altri, non accettava favori dalla strega che le aveva rubato l’affetto del fratello.
Non lo so. Streghe o non streghe, le donne sono spesso incomprensibili. C’è una cosa che però noi della linea femminile della famiglia abbiamo imparato e che ci tramandiamo con il codice genetico: uomini, fidanzati e mariti rigorosamente figli unici.



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