Una vana corsa a tappare buco dopo buco

Creato il 25 agosto 2010 da Zfrantziscu
È più facile dirlo che farlo, ma sembra chiaro che la politica abbia perso l'occasione di trasformare la crisi industriale che ha investito la Sardegna in occasione per ripensare ad un modello di sviluppo diverso da quello in crisi. Le risorse intellettuali della nostra classe dirigente (politica, sindacale, imprenditoriale, culturale) sono state impiegate in una affannosa, e per di più inutile, corsa a tappare i buchi che la crisi internazionale andava aprendo in tutti i sistemi industriali locali: petrolchimico, metallurgico e tessile.
Sono una cinquantina le aziende che nel 2010 hanno messo i propri dipendenti in cassa integrazione, da quelle che sono approdate alle prime pagine dei giornali (Euralluminia, Vinyls, Portovesme, Legler) ad altre, come il Salumificio Murru e alla Vip Sardegna agroalimentare, che non hanno avuto questo onore. La Sardegna paga, quasi ovunque, lo scotto di una sciagurata politica di industrializzazione in cui si mescolano insipienze e complicità locali e politiche statali neo coloniali.
Le prime (in sintonia tutte, o quasi, le forze politiche, i sindacati, l'intellighentsia metropolitana) sognando una modernizzazione forzata della cosiddetta società arcaica attraverso dosi massicce di classe operaia; lo Stato felice di trovare in Sardegna tanti compradores disposti a lasciar governare dall'esterno l'economia sarda in cambio di una patente di “rappresentanti locali” dello stesso Stato. E a che costi. Secondo il quotidiano della Cei, L'Avvenire, solo nella Media Valle del Tirso sono stati bruciati 500 milioni di euro. “Tra accordo di programma, contratti d’area e contributi vari” scrive il giornale dei vescovi “se ne sono andati 500 milioni di euro. Soldi finiti letteralmente chissà dove. Stando all’ultimo rapporto della Corte dei conti, su 100 milioni di euro arrivati a Ottana, 80 hanno finanziato attività inesistenti”.
Certo, malfattori coloro che sono fuggiti col malloppo. Ma chi ha inseguito pervicacemente, e non ostante i fallimenti a catena proprio in quella piana, la ripetizione di errori passati, già pagati con uno sperpero incredibile di denaro pubblico, può davvero atteggiarsi ad anima bella? Che senso ha insistere in un modello di sviluppo che ha mostrato, ad Ottana come a Cagliari, a Siniscola come a Porto Torres, di aver fallito i suoi obiettivi?
C'è prima di tutto il dovere di salvare i posti di lavoro di chi sta per perderli o già li ha persi, certo. Ma con la coscienza di fare un'opera di assistenzialismo, non di sviluppo. E si smetta, detto per inciso, di prendersela con i pastori accusati di voler anche essi misure assistenzialiste. Se non altro per un po' di pudore. Momenti di crisi acuta come quella che c'è, e soprattutto come quella che si annuncia, hanno bisogno di grandi capacità inventive, anche nella utilizzazione di moderni strumenti fiscali come la Zona franca, per esempio, o come la elaborazione di un moderno Statuto di autogoverno in tutti i domini di nostro interesse.
Il dramma è che il soggetto primo, delegato da tutti noi a rappresentarci, il ceto politico intendo, è incapace di mettere da parte le proprie beghe. E dovremo rassegnarci a veder svanire l'opportunità che dalla crisi di un fallimentare modello di sviluppo si esca con un modello nuovo. Si cercherà di tappare, meglio che si possa, i buchi che via via si apriranno fino a quando ci sarà un solo unico buco nero: la Sardegna.

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