Una vita in disparte

Da Minerva Jones
Ciascuno di noi sogna d'essere destinato a grandi cose nella vita, e poi questa lo ridimensiona. Piano piano gli toglie i sogni, lo seda, lo mortifica e lo rende una pedina funzionale al sistema.
E quello piano piano si abitua, e comincia a fare ogni giorno le stesse cose, per guadagnare uno stipendio, mantenersi, pagare un mutuo, un'auto e qualche divertimento in forma di cinema o uscite con gli amici in cui bere per evitare di pensare e quindi disperarsi.
E poi cerca in hobby vissuti in modi maniacali, in collezioni di ogni genere, in attività fagocitanti, una piccola soddisfazione per l'anima, quella che ha ucciso nel corso del tempo, quella che era così forte e preponderante quand'era giovane.
E poi cerca disperatamente un compagno o una compagna per vivere questo, per raccontare giornate vissute nella quotidiniatà più svilente, in cui neanche sa più perché fa le cose. E si dispera quando non lo trova, o quando viene a perdere questo interlocutore - questo punchball emotivo.
Oppure al contrario vive nella finzione d'avere qualcosa del genere e d'essere riuscito a 'ottenere tutto': d'aver amici, relazioni, interessi a contorno di lavori potenzialmente influenti in cui ha coronato l'ambizione di riconoscimenti esterni.
E io mi chiedo: ma che senso ha tutto questo?
Perché l'alternativa dev'essere la mediocrità di una vita routinaria o al contrario il raggiungimento di situazioni influenti cui si mirava da giovani per 'cambiare il mondo' ma scarnificate dall'umanità e dall'afflato d'amore e cura che avevamo allora?
Perché il mio corpo e la mia anima devono finire localmente lì dove li delimita la mia pelle, o temporalmente nel momento in cui smette di battere il mio cuore?
Perché se sono pacificata dal non provare alcun bisogno di un interlocutore, o attività maniacali a integrazione di lavori meccanici e routinari, perché se il mio unico desiderio è di stare in disparte e far brillare un po' di luce prima di spegnermi in un'esplosione - come accadrà per il sistema solare - questa società e questo stato non me lo permetteranno? Così come non me lo permetteranno i suoi abitanti per i quali io sarò sempre un'anomalia neanche più da marginalizzare - almeno potrei vivere a modo mio! - ma da soffocare perché ogni volta ricorda loro la loro tristezza.
Io non riesco ad afferire né a un mondo né all'altro. Io mi sento e vorrei stare fuori da tutto - lontano, nella miseria, a scrivere, brillare e danzare finché morte non mi separi, felicemente, da questo mondo. Non sarebbe bellissimo? Tanto il mondo si cambia comunque già solo perché si è esistiti, e io la mia parte l'ho già fatta.
State bene.