“Underwater”, album dei The Leeches – recensione

Creato il 06 gennaio 2013 da Alessiamocci

Le sanguisughe sono tornate, e sono pronte a succhiare dai vostri corpi fino all’ultima goccia di energia! Come? A colpi di punk ovviamente, secco, veloce e nervoso, come vuole la migliore tradizione….

Sanguisughe italiane, e per una volta non si parla della nostra indecente classe politica: i The Leeches sono quattro ragazzi che arrivano dagli ultimi brandelli di Italia prima della frontiera svizzera, rispondono ai nomi di Massi, Mone, Mexicano e Freddy, suonano punk senza mezzi termini di scuola Ramones e lo suonano in una maniera che renderebbe fieri Marky, Johnny, Joey e Dee Dee….

La band nasce nel 2002, quando i quattro si incontrano e decidono di far confluire le loro rispettive esperienze in altri gruppi della zona in un’unica formazione; come da copione, per emergere c’è da rimboccarsi le maniche, lavorare duro e fare gavetta, e i quattro sono disposti a farlo, così per i primi anni provano, suonano dal vivo e cominciano a farsi un nome nell’underground e nell’ambiente della musica punk grazie a concerti esplosivi, pubblicano un EP ed un vinile 7″, e finalmente nel 2006 arrivano a debuttare ufficialmente con il full length “Fun is dead“, prodotto dalla Nextpunk records, album che fa da rampa di lancio per la carriera della band, seguito due anni dopo dalla firma con la Tre Accordi Records e dal secondo lavoro, “Eat the Leeches“, album della conferma.

Pubblicato il secondo album i The Leeches riprendono un’intensa attività live che li porta a calcare importanti palchi e ad aprire gli show di grossi nomi della musica punk e rock, dai Ministri a Danko Jones, fino ai Bad Religion, oltre a illustri partecipazioni a vari festival (non ultimo l’I-Day Festival 2010). Nel frattempo Massi e soci scrivono altro materiale, e, dopo aver assodato il rapporto con la Tre Accordi, mandano alle stampe il loro terzo album, “Get serious”. Il gruppo non si ferma e continua a suonare live, macinando chilometri e consumando fatica sui palchi italiani, fino ad un nuovo ingresso in studio, questa volta affiancati al missaggio da una vera e propria icona del punk rock, Daniel Rey, un personaggio che può vantare nel suo curriculum nomi come Misfits e Ramones – e scusate se è poco! – e che porta i comaschi nella direzione del punk più schietto, onesto e, soprattutto, sudato.

Il risultato di questa collaborazione è uscito nei negozi di dischi in formato digitale, su cd ed in vinile il 6 novembre scorso sotto il titolo di “Underwater“, un titolo claustrofobico ed una copertina che riporta il disegno di un enorme piranha non certo rassicurante, per un album adrenalinico ed esplosivo, senza pause e senza attimi di respiro, proprio come i poveri pesci in copertina che cercano di sfuggire dal gigantesco piranha. 28 minuti per 13 canzoni, una media che supera di pochissimo i 2 minuti a pezzo ed è giusto così, perchè nel punk le parole vanno urlate e tirate a velocità alte, lo sanno i The Leeches e lo sa ancora meglio il buon Daniel Rey, che però con la sua esperienza riesce ad evitare l’effetto ripetitività che brani così brevi spesso si portano appresso.

Si parte con “I’m everything to me” e nonostante la carica atomica del pezzo il baricentro sembra spostarsi verso un punk più pulito, ma è soltanto un’impressione iniziale, ci vuole ben poco perché l’asticella torni a pendere verso il punk picchiato duro e a tratti tendente all’hardcore, e ci vuole ancora meno per ritrovare i Leeches dei lavori precedenti, nella passione viscerale più che evidente e nell’onestà dei testi, scanzonati e senza metafore nascoste o sofismi che col punk nulla avrebbero a che vedere; i comaschi suonano e si divertono, cantano della vita di tutti i giorni e di qualsiasi altra cosa passi loro per la testa, che sia il cibo (argomento che si ritrova in diversi pezzi anche dei dischi precedenti) o qualche sprazzo di impeto rivoluzionario, una formula semplice, che sicuramente non farà vincere al gruppo premi per il cantautorato, ma certamente servirà a strappare qualche risata e – soprattutto – farà divertire chi li ascolterà dal vivo.

Ed è questa la cosa importante, perché in fondo è proprio la musica live la dimensione più congeniale ai quattro, e che sia per via del genere, per attitudine o per altro poco importa, perché se l’ascolto in cuffia fa battere il piede e scuotere la testa, si può andare sul sicuro aspettandosi live esplosivi e divertenti, e prevedendo grossi poghi sotto il palco su pezzi come “Stop the clock”, “Down on my knees” o “Nothing at all”.

Ma c’è qualcosa di più in questo quarto album dei Leeches, una sorta di perfezionamento del suono, per quanto l’impetuosità rimanga comunque il tassello centrale del sound del gruppo ci sono qui e là tracce di influenze, aiutate ad emergere anche dalla collaborazione di Rey, che riportano alla mente band come gli Offspring, ma anche i Dead Kennedys (“Too hungry to pray” arriva innegabilmente da Jello Biafra e compari), oltre alla riuscitissima cover di “ME-262″ dei Blue Oyster Cult, Anno Domini 1974, piazzata prima del finale a chiarire che i ragazzi sono preparati, e non poco….

Al di là delle analisi sul percorso del gruppo, che sostanzialmente procede secondo i piani e senza grosse deviazioni (anche se forse Massi manca ancora di una pronuncia inglese più naturale e meno “scolastica”, requisito non essenziale ma sicuramente di impatto notevole), “Underwater” è un album divertente e coinvolgente, che acchiappa fin da subito con i suoi ritmi secchi e la veemenza con cui la band aggredisce gli strumenti nel vero senso della parola, un album che chi è avvezzo al punk non può non apprezzare per una band che va seguita ed apprezzata dal vivo, e portatevi qualche integratore per il dopo concerto, perché queste sanguisughe vi lasceranno soddisfatti ma stremati….

Written by Emanuele Bertola

Tracklist

1. I’m Everything To Me
2. Piranha Boys
3. Serious
4. Feelin’Alright Tonight
5. Down On My Knees
6. Vanilla Coke
7. Stop The Clock
8. Nothing At All
9. Standing On My Tomb
10. My Life
11. Too Hungry To Pray
12. Me-262
13. Into The Storm


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