Underworld: una Storia Tutta Americana

Creato il 04 maggio 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il maggio 4, 2012 | LETTERATURA | Autore: Simone Bellitto

Se per Arthur Schopenhauer la vita è un pendolo che oscilla fra noia e dolore, secondo lo scrittore statunitense Don DeLillo essa è inframmezzata da incertezza e volontà di sprofondare nell’abisso. Perlomeno è ciò che ci arroghiamo il diritto di dichiarare analizzando uno dei suoi best seller, nonché la sua opera più rappresentativa: Underworld (1997, edizione italiana pubblicata nel 1999 da Einaudi, traduzione di Delfina Vezzoli). Definito uno dei capisaldi della letteratura post-moderna, questo libro affetta, viviseziona e ricompone tasselli di un arzigogolato puzzle che è nient’altro se non l’intera storia statunitense dal secondo dopoguerra fino agli anni ’90. Dai principi del maccartismo per giungere alla caduta del muro di Berlino ed alla fine della Guerra Fredda. Cornice centrale e principale di quest’opera è lo sport del baseball, vero e proprio feticcio culturale americano nonché fil rouge dell’intera vicenda. La narrazione degli accadimenti non è mai presentata in modo lineare e schematico. Si va avanti e indietro nel tempo, senza soluzione di continuità, all’insegna di un disegno del fato votato ad un incessante disordine spazio-temporale. All’interno di questo caos materiale si collocano le storie dei protagonisti che, nella loro numerosità, fanno quasi le veci di un coro tragico greco. Raccontano frammenti ed impressioni di epoche così temporalmente vicine, ma anche così concettualmente lontane. Si va dai fittizi Nick Shay e Manx Martin, ai più che reali Lenny Bruce e J. Edgar Hoover, in una miscela inconsueta di vita pubblica e privata sia di celebrità che di privati cittadini. Le loro esistenze sono intersecate ed hanno in comune un’innata e dolorosa predisposizione alla disfatta, errando con i propri corpi sempre pericolosamente a pochi centimetri da un baratro oscuro, ma allo stesso tempo quasi invitante. A caratterizzare la grigia esistenza dei personaggi, all’interno dell’universo “parallelo” di DeLillo, sono vizi, costumi e superstizioni che si trincerano indistintamente nella cultura più alta ed in quella più popolare. L’ossessione per la numerologia (in particolare per lo “sfortunato” numero 13), l’immondizia, le guerre nucleari, i graffiti e le droghe. Persino l’esistenza della Groenlandia diventa veicolo ideale per deliranti, ma a tratti inquietanti, ipotesi di complotto.

In fondo la logica dell’ipse dixit non ha mai imperato altrove come negli USA, e DeLillo sembra esserne più che consapevole. Tutto questo “residuato bellico” quasi ipnotico soffoca la succube (dis)umanità del mondo contemporaneo, sempre più veloce e spietato nel rincorrere le sue nefande logiche di profitto. Tutto rientra nella categoria del malato scibile umano, tutto fa parte in modo ineluttabile del Trionfo della Morte. E lo stesso celebre dipinto di Pieter Bruegel, assieme ad altri reperti culturali anglosassoni e non (quali il brano Cocksucker Blues dei Rolling Stones ed il capolavoro Das Kapital di Karl Marx), popola in modo più che ingombrante le pagine ed i capitoli del romanzo, conferendogli prepotentemente un significato più che definitivo ed inequivocabile. Tutti i figuranti di quest’imperfetto universo, come la vita reale del resto, ne risentono in modo morboso. Pacifisti, guerrafondai, chierici, writers di strada e industriali sono schiacciati dalla loro proverbiale impotenza. Tutti quanti, nessuno escluso. Il ritratto globale è quello di un mondo vittima della frenesia debordante del “secolo breve”, di cui sono rimaste in piedi soltanto le macerie. Che queste macerie siano visibili ad occhio nudo o meno ha poca importanza. In conclusione, possiamo onestamente dire che questo libro, come altri hanno già asserito prima di noi, è un prodigio della letteratura (post)moderna americana. La visione “apocalitticamente integrata” di DeLillo colpisce e lascia decisamente un segno profondo nella memoria del lettore. D’altronde, l’umanità intera, ai giorni nostri, necessita sempre più di visioni che siano la testimonianza più veritiera possibile del suo ottenebrato degrado. Tutto ciò in alternativa a rincorrere forsennatamente immagini positiviste di un “paradiso perduto” che oramai non esiste più.



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