Da fanatico della musica neomelodica, e di quei complessi meccanismi che legano un territorio alla sua cultura canzonettara, sogno da anni di scrivere un romanzo su una popstar partenopea, idolo delle folle da Avellino a Caserta e completamente sconosciuto nel resto del mondo. E’ un argomento interessantissimo, pieno di possibilità narrative, quello degli splendori e delle miserie legati al successo popolare: il bruciante fuoco dell’ambizione, gli espedienti, i compromessi e il meretricio a cui si è quasi sempre costretti per ritagliarsi una fettina di notorietà. Le luci della ribalta e gli oscuri retroscena. E se non mi sono mai imbarcato nella complicata avventura di mettere insieme un romanzo su questi temi, è solo perché resto convinto che uno scrittore debba sempre avere un’esperienza il più diretta possibile di ciò che racconta, e divertirsi a ricamare e a sbizzarrirsi con le creazioni fantastiche partendo da un substrato a lui ben noto. Non avendo mai frequentato il mondo della discografia, né tantomeno quello del camorrismo neomelodico, ho quindi sempre lasciato che il mio progetto rimanesse incompiuto. Oggi però una piccola notizia pubblicata dal quotidiano “La Stampa” mi ha riacceso l’ispirazione, offrendomi un altro meraviglioso spunto per una possibile trama. Un signorotto cinquantaseienne belga, tale Roger Allen François Jouret, più noto a chi era adolescente negli anni ’80 come Plastic Bertand, ha confessato di non aver mai realmente cantato nessuno dei successi easy listening che, tra il 1977 e il 1984, lo portarono in tivù e nelle hit parade. A dar la voce a quella specie di grillo danzante in tutina aderente dai colori degni di Platinette e Cristiano Malgioglio era in realtà il suo produttore, Lou Deprijck, che cantò tutti i successini electropop allora in voga muovendo i fili di quella marionetta in cui trasformò Jouret. La verità esce fuori solo oggi, a oltre trent’anni di distanza e con il solito corredo di avvocati ed azioni legali, ma non è questo ad affascinarmi e a stuzzicare la mia voglia di romanzare. Ad essere interessante è tutto ciò che si può raccontare di un uomo che, per denaro e per chissà quale speranza di affermazione, accetta di essere il protagonista di una popolarità in playback. Senza contare che si aprirebbero meravigliose possibilità di paralleli con la vita di ognuno di noi che, in maniera più o meno marcata, e con una consapevolezza maggiore o minore, finiamo spesso a parlare con parole e voce altrui. I miei lettori esperti di musica mi faranno notare che non si tratta certo del primo caso di bufala discografica. Come non ricordare quella faccia di mozzarella di Den Harrow, o la Corona dietro cui si celava una già sfigatissima Jenny B? O magari i Sex Pistols, e chissà quanti altri fantocci della canzonetta non ancora smascherati. Io però trovo che questo caso sia il più eclatante di tutti. Innanzitutto per quel nome, “Plastic”, che a ripensarci col senno di poi era già una confessione di essenza fasulla. E poi perché - se è vero che, in genere, da ciò che è finto pretendiamo almeno un po’ di bellezza e di presunta perfezione - considerando il fatto che il Bertrand costruito a tavolino cantava male, fisicamente era un cesso, e si vestiva con orrendi abitini da checcaclown, resta davvero un mistero come un fenomeno mediatico potesse essere posticcio e, allo stesso tempo, inopinabilmente orrido.
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