UNIONE EUROPEA: C’è del marcio in Danimarca

Creato il 11 aprile 2012 da Eastjournal @EaSTJournal

di Antonio Scafati

da TermometroPolitico

Gli elettori danesi di sinistra non sono soddisfatti del governo guidato dai socialdemocratici. Sono passati solo sei mesi dalle elezioni dello scorso settembre ma i delusi sono già tanti. C’è poco da dire: i sondaggi non lasciano spazio a dubbi. A fine marzo il  quotidiano Politiken ne ha pubblicato uno: solo un elettore laburista su tre ritiene Helle Thorning-Schmidt (nella foto) un primo ministro all’altezza. Pochi giorni dopo ne arriva un altro: a un migliaio di danesi è stato chiesto di indicare chi tra i tre leader della coalizione di maggioranza sta facendo meglio. Ne sono usciti dati impietosi per i due esponenti di sinistra: Villy Søvndal, leader del Partito Popolare Socialista e ministro degli Esteri, ha raccolto solo il 2%; la premier socialdemocratica Helle Thorning-Schmidt il 12%. Su tutti spicca Margrethe Vestager, che guida la Sinistra Radicale (a dispetto del nome un partito centrista) ed è ministro dell’Economia. Difficile non leggere in questi numeri la delusione di una fetta di elettorato che si aspettava di più. Sono di nuovo i sondaggi a raccontare come gli elettori di sinistra stiano abbandonando il partito Socialdemocratico e il Partito Popolare Socialista. Il primo oggi avrebbe – punto più punto meno – qualcosa come il 20%: pochissimo, per un partito che anche nei difficili primi dieci anni del nuovo millennio era stato comunque in grado di galleggiare intorno alla soglia del 25%. Peggio sta il Partito Popolare Socialista (intorno al 6%), in caduta da mesi e ormai abbondantemente superato dall’Alleanza Rosso-Verde che appoggia il governo e che ha sempre più intenzione di farlo pesare eccome, questo appoggio.

Non sono fulmini a ciel sereno. Alle elezioni parlamentari dello scorso settembre, il partito socialdemocratico aveva preso il 24,9%, mai così male dal 1903. Il Partito della Sinistra Socialista s’era fermato solo al 9,2%, sorpassato in extremis e un po’ inaspettatamente anche dalla Sinistra Radicale. Qualcosa stava succedendo e ha continuato a succedere. Sei mesi dopo, infatti, quel campanello d’allarme suona sempre più forte. Andare al governo, per la sinistra ha probabilmente complicato le cose.

Di fronte a questo scivolamento, il tentativo dei vertici della maggioranza – compresa la stessa Helle Thorning-Schmidt – è stato quello di dare poco peso ai sondaggi: non è servito a molto, come non sono servite certe spiegazioni dal sapore tecnico e un po’ superficiale. Lo scorso gennaio, celebrando (si fa per dire) i primi cento giorni da premier, e dovendo già confrontarsi con le pressioni di una grossa fetta di danesi amareggiati, la Thorning-Schmidt ha provato a spiegare perché in tre mesi molti danesi sembravano già stanchi di lei, al contrario di quanto accaduto nel 2001 quando la luna di miele tra i conservatori e l’elettorato era stata abbastanza lunga: “E’ stato sicuramente più semplice assumere la guida del paese nel 2001 rispetto a quanto accaduto a noi nel 2011”. Una risposta semplice semplice e in fondo anche vera, ma inaccettabile per una nazione che lo scorso settembre ha scelto di cambiare dopo dieci anni con i conservatori.

Il rapporto tra gli elettori di sinistra e la maggioranza guidata dai socialdemocratici è stato subito complicato. Aspettative disattese, qualche errore a ingarbugliare le cose, certe scelte di comunicazione poco oculate. Anche alcuni atteggiamenti. Come Villy Søvndal, che si è detto stufo delle critiche al suo modo di parlare. Come Helle Thorning-Schmidt che per almeno due, tre mesi (quelli iniziali) ha dato l’impressione di non essere sfiorata dalle critiche, di non sentirle neppure. Una strategia che non ha dato frutti tanto che, come evidenziato da diversi analisti politici, a metà gennaio il comportamento della premier è drasticamente e fulmineamente cambiato.

Il vero problema, però, è che molte delle promesse elettorali dei partiti della coalizione sono rimaste sulla carta. La svolta che tanti danesi aspettavano non c’è stata o comunque non è percepita. Esempi sparsi: c’erano da risolvere i nodi del mercato immobiliare; l’ambizioso piano energetico è stato approvato solo dopo che, a colpi di veti, l’opposizione conservatrice ha ottenuto molto di quello che voleva; la ‘tassa sul traffico’ a Copenhagen è stata accantonata dopo mesi di confuse trattative. Proprio quest’ultimo esempio fa capire di cosa parliamo: stretto tra pressioni esterne e debolezze interne, l’esecutivo si è infilato in un vicolo cieco. E alla fine è andato a sbattere. L’idea di istituire un pedaggio perla capitale era stato uno dei capisaldi della campagna elettorale di Villy Søvndal: col denaro recuperato si sarebbero abbassate le tariffe del trasporto pubblico. Inoltre Copenhagen avrebbe risolto il problema del traffico e dell’inquinamento. Niente da fare: dopo settimane e settimane di trattative il tavolo è saltato. Tutto rinviato a data da destinarsi, con la promessa (rinnovata) di investire risorse per migliorare i trasporti. Søvndal ne è evidentemente uscito male. La Vestager si è cautamente tenuta ai margini del polverone. Sulla premier Thorning-Schmidt sono piovute critiche del tipo “debole leadership” e “maggioranza divisa”.

Intendiamoci: non è che in sei mesi la coalizione di governo abbia collezionato solo sconfitte e imbarazzi. Qualche risultato – anche di peso – l’ha portato a casa. Ad esempio è diventato realtà per le coppie omosessuali il sogno di sposarsi tra le mura di una chiesa. E anche sull’immigrazione l’esecutivo ha ammorbidito alcuni aspetti di quel complesso normativo costruito dal precedente governo conservatore che tante critiche aveva attirato su di sé. E poi c’è la politica estera. A gennaio è iniziato il semestre di presidenza danese dell’Unione Europea e non c’è bisogno di stare a dire quanto complicato sia questo periodo per il Vecchio Continente e quanto lavoro si stia facendo a Bruxelles per tenere a galla l’euro e l’Europa. Molti esponenti del governo danese hanno avuto quindi molto da fare fuori dai confini nazionali. Ma dentro quei confini, ad aspettarli c’è sempre il problema dei problemi: la crisi economica.

Come scriveva il Nordic Labour Journal alla vigilia delle elezioni dello scorso settembre, l’80% dei danesi sarebbe andato alle urne pensando al proprio portafoglio più leggero e ai timori per il posto di lavoro. In Danimarca sono molti quelli che devono appoggiarsi in un modo o nell’altro al welfare, sono molti quelli che hanno visto un impatto sul proprio bilancio familiare, sono molti quelli che fanno i conti con l’aumento delle disuguaglianze sociali. Dal governo guidato dalla Thorning-Schmidt, i danesi si aspettavano tanto, forse troppo. Ridurre le disuguaglianze sociali (come promesso in campagna elettorale) non è cosa facile in tempi come questi e soprattutto non è facile farlo in soli sei mesi. Resta il fatto che a oggi il cambio di passo non s’è visto. La Danimarca è in recessione tecnica e la disoccupazione è sempre lì, intorno al 6%.


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