UNIONE EUROPEA: Saremo sommersi dagli euroscettici?

Creato il 23 dicembre 2013 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 23 dicembre 2013 in Europa Futura, Slider, Unione Europea with 0 Comments
di Davide Denti

“Stiamo andando a cento all’ora a sbattere contro un muro”, commentavano solo qualche mese fa nei corridoi dell’europarlamento a Bruxelles. Il riferimento era alla marea montante dei partiti populisti ed euroscettici, che in tutta Europa si stanno mobilitando in vista delle elezioni europee previste per il prossimo 25-26 maggio nei 28 stati membri dell’Unione, mentre la crisi dell’eurozona ancora morde le loro società.

Le elezioni europee del 2014 sembrano destinate a essere ricordate per due cose, forse contraddittorie tra loro: l’inevitabile declino della partecipazione al voto, e la crescita dei partiti populisti ed euroscettici. Il rischio, qualcuno ha paventato, è che l’istituzione dedicata alla rappresentanza dei cittadini si trovi incapace di funzionare nel suo prossimo mandato. Una diagnosi così negativa è giustificata? Forse no, sostiene in un suo documento Yves Bertoncini, direttore di Notre Europe. Vediamo perché.

Affluenza alle urne: l’importanza di mettere l’asticella al livello giusto

Le elezioni europee, da quando si sono tenute a suffragio dirette a partire dal 1979, hanno dato risultati paradossali per quanto riguarda la partecipazione alle urne. Mentre i poteri del parlamento europeo sono costantemente cresciuti, da una camera puramente consultiva com’era ad un co-decisore su un piano di parità con il Consiglio UE nella stragrande maggioranza dei dossier (fanno ancora eccezione allargamento e politica estera), il tasso di affluenza alle urne dei cittadini europei è costantemente diminuito, dal 62% del 1979 al 43% del 2009. Il timore è che nel 2014 non si arrivi a superare la barra del 40%.

Un dato preoccupante, se si considera che la partecipazione alla urne alle elezioni politiche nei diversi paesi europei varia tra il 65% e il 95%. Ma sarebbe un paragone corretto? Le elezioni europee non sono come le elezioni nazionali. In primo luogo, perchè non si elegge un governo. Votare per il Parlamento europeo ha un effetto sostanziale sulla composizione delle leggi stabilite in sede UE, e da quest’anno dovrebbe avere un chiaro legame anche con la scelta del presidente della Commissione, ma non influenza la composizione dell’altro organo legislatore, il Consiglio, nè le politiche perseguite dalla BCE, che sono stabilite nei trattati. E’ meno evidente per l’uomo della strada capire come la sua scelta possa produrre un cambiamento sostanziale a livello europeo.

In secondo luogo, una delle ragioni del calo costante degli elettori all’europarlamento è dato dalla diminuzione del peso degli stati con sistemi di voto obbligatorio rispetto al totale: da 3 su 9 nel 1979 (inclusa l’Italia), a 3 su 28 (Belgio, Grecia e Lussemburgo).

Inoltre, è sbagliato paragonare le elezioni europee alle elezioni nazionali. Se paragonate alle elezioni federali di sistemi politici come la Svizzera o gli Stati Uniti, il quadro cambia: solo il 48% degli americani (e ancor meno in caso di elezioni di mid-term) o il 54% degli svizzeri si è recato a votare per le elezioni federali, in media, tra il 1965 e il 1995. Eppure nessuno si sogna di contestare per questo l’assenza di democrazia parlamentare degli Stati Uniti o della Svizzera. Segno che l’astensione è una sfida accettabile per un livello politico meno vicino al cittadino di quanto possano essere le elezioni comunali o politiche nazionali.

Infine, una serie di fattori di circostanza sembrano convergere nel fare delle elezioni del 2014 una possibile eccezione: le elezioni si terranno in maggio anziché, come solito, in giugno, con minor rischio che la gente “vada al mare”. In secondo luogo, in diversi casi le elezioni europee saranno simultanee ad altre tornate elettorali, nazionali o locali. Si voterà lo stesso giorno delle europee in Belgio, Irlanda, Grecia e Lituania, oltre che in 10 Länder tedeschi e in diverse constituency britanniche. Infine, l’eurocrisi ha portato l’Europa ad essere un tema di dibattito quotidiano in molti stati membri. La politicizzazione delle questioni europee potrebbe aiutare a convincere i cittadini a recarsi alle urne per esprimere la loro opinione – non necessariamente positiva – su come l’UE ha gestito la crisi. La sinistra in particolare, come partiti di minoranza a livello europeo e nazionale nell’ultimo periodo, ha l’opportunità e la responsabilità di puntare il dito contro il magro bilancio dell’ultimo mandato europeo del centrodestra, e al contempo articolare una visione alternativa per l’Europa unita dei prossimi cinque anni.

Dell’inutilità degli euroscettici a Bruxelles

Ma che fare se, anche con una partecipazione al voto a livelli decenti, un gran numero di europarlamentari si rivelassero euroscettici o populisti? Il Parlamento europeo potrebbe restarne in scacco? In realtà, sarebbe molto più grave per l’UE se partiti euroscettici o populisti andassero al governo in più stati membri (e le relazioni di Cameron, Orban, e dell’ex presidente céco Klaus con l’UE lo dimostrano). Euroscettici e populisti, infatti, hanno ben poca influenza sul processo decisionale europeo, e questo perché l’influenza è in funzione non solo del numero di seggi, ma anche della coesione interna dei gruppi politici e della loro capacità di coalizzarsi con altre forze politiche.

In primo luogo, gli euroscettici e populisti sono profondamente divisi tra loro. I loro temi di battaglia possono essere simili: il deficit democratico dell’UE, la difesa delle identità nazionali contro Bruxelles e spesso anche contro immigrati e Islam, identificati come “altro da sè“, e talvolta la denuncia dell’agenda neoliberista dell’UE. Ma a parte un generale rigetto delle istituzioni europee, i vari partiti populisti ed euroscettici hanno ben poco in comune. Così, si trovano frammentati tra tre gruppi diversi nell’emiciclo di Bruxelles e Strasburgo: i conservatori più mainstream nell’ECR (Tories britannici, il PiS dei Kaczynski, l’ODS céco di Klaus), la destra autonomista nel gruppo EFD (Lega Nord, UKIP, Veri Finlandesi, Popolari danesi, TT lituani, SNS slovacco), la sinistra radicale nel gruppo GUE/NGL (Die Linke, Syriza, Front de Gauche, Izquierda Unida, Sinn Fein, comunisti céchi). Fuori da ogni gruppo sono rimasti, all’ultimo giro, i partiti di estrema destra (Front National, FPOE, il PVV di Geert Wilders, Ataka, Jobbik), incapaci di trovare una sintesi tra diversi nazionalismi: il loro gruppo Identità, tradizione, sovranità si è frantumato nel 2007 per via delle offese che gli eurodeputati del Partito della Grande Romania ritenevano di aver subito dalla collega italiana Alessandra Mussolini.

Un gruppo europeo della destra potrebbe risorgere a questo giro (prova ne sia l’attivismo europeo di Marine Le Pen), ma ciò non costituirebbe una grave minaccia per il Parlamento europeo. Infatti, la coesione interna e la partecipazione ai lavori  dei gruppi euroscettici sono più basse di quelle degli altri gruppi politici, e ciò ne riduce l’influenza nell’europarlamento, diminuendo il valore del numero dei seggi conquistati alle elezioni.

Inoltre, se oggi gli euroscettici al Parlamento europeo possono contare su circa 140 eurodeputati su un totale di 766 (il 20%), nel 2014 il loro numero potrebbe salire fino a circa 200 su 751 (il 25%), ma non oltre. Ciò poiché gli equilibri del prossimo europarlamento dipendono soprattutto dai sette stati che raccolgono due terzi dell’elettorato e determinano il 60% dei seggi. E in alcuni di questi (Spagna, Polonia) non si prevede un’aumento del voto populista, mentre in altri (UK, Romania) gli euroscettici avevano già ottenuto ottimi risultati nel 2009. L’aumento previsto verrebbe quindi da quei paesi in cui il voto populista o euroscettico è in ascesa: Francia, Italia e Germania.

Ma, come spiegato sopra, l’aumento numerico non corrisponderebbe necessariamente ad un aumento d’influenza di tali gruppi. In mancanza di una dinamica ben definita tra maggioranza e opposizione, le decisioni al Parlamento europeo vengono prese il 70% delle volte per consenso tra i due gruppi maggiori, popolari (PPE) e socialisti (S&D), con l’eventuale aggiunta dei liberali (ALDE). Al contrario, il 15% delle volte le decisioni passano con una maggioranza di centrosinistra (liberali, socialisti e verdi) e il restante 15% con una maggioranza di centrodestra (liberali, popolari e conservatori). La crescita dei gruppi euroscettici di destra e di sinistra, che costituiscono l’opposizione alla “grande coalizione” europea tra popolari, liberali e socialisti, potrebbe avere l’effetto paradossale di rafforzarla, aumentando la propensione alla coesione tra i 550 eurodeputati dei gruppi centrali.

Porre le sfide nella giusta prospettiva

Il Parlamento europeo affronta delle sfide difficili in vista delle elezioni del 2014, conclude Yves Bertoncini, ma le cose vanno messe nella giusta prospettiva. Per quanto riguarda l’astensionismo, il 2014 potrebbe portare ad una inversione di tendenza, o potrebbe confermare quelli che sono considerati livelli accettabili in elezioni federali paragonabili quali quelle in Svizzera e Stati Uniti. Per quanto riguarda l’ascesa dei populisti, nonostante il loro numero crescerà quasi per certo, la loro influenza sul processo decisionale europeo non aumenterà; la loro presenza farà più danno all’immagine del loro paese di provenienza, che all’UE.

Una possibile conseguenza è che i gruppi politici centrali – popolari, socialisti e liberali – siano spinti dalla presenza di un maggior numero di euroscettici nell’emiciclo europeo a discutere, difendere e spiegare meglio le tematiche europee alle opinioni pubbliche dei 28 stati membri, formulando e mettendo in atto alternative alle politiche del centrodestra che ha governato la maggioranza degli stati membri nell’ultimo decenni. Il dibattito che ne conseguirà potrebbe risultarne più politicizzato, ma anche in grado di creare per la prima volta quella sfera pubblica transnazionale che è da molti considerata il prerequisito per una vera democrazia europea.

Foto: European Parliament, Flickr

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