Universi himalayani: un libro sulle montagne del Buddha

Creato il 24 luglio 2013 da Milleorienti

Cric, croc. La terra scricchiola sotto gli scarponi mentre camminiamo su una riva del fiume, in questa magnifica regione del Nepal. Lei, il fiume, si chiama Kali Gandaki e dà nome all’intera valle: è femminile  come tutti i fiumi in questa parte del mondo, e molto elegante nella sua acqua argentea circondata da montagne di colori irreali, in sfumature che vanno dal viola all’ocra. Siamo a tremila metri di altezza e stiamo lentamente salendo; da molte ore solo il rumore del vento ci fa compagnia nel nostro trekking.

L’unica presenza umana – lo intuiamo aguzzando la vista –  è in quella piccola macchia di colore bordò, quasi sospesa sulla parete della montagna viola, ancora lontana davanti a noi: la macchia bordò è un piccolo gonpa, un monastero buddhista tibetano. Uno dei molti che si trovano in Nepal, sia perché il buddhismo tantrico di scuola tibetana qui è storicamente diffuso, sia perché il Nepal è uno dei Paesi dove si sono rifugiati quei tibetani che, seguendo il Dalai Lama, scelsero e scelgono la via dell’esilio piuttosto che vivere in un Tibet occupato dai cinesi.

Sarà quella la prossima tappa del nostro viaggio che  si concluderà  a quota quattromila, a Muktinath. Luogo sacro a buddhisti, hindu e seguaci dello sciamanesimo tibetano, il bon; là dove acqua e fuoco (prodotto da gas naturale) sgorgano dalla terra nello stesso punto, e il cielo stellato sembra a portata di mano… Muktinath, porta aperta sull’antico regno buddhista del Mustang, un tempo indipendente, oggi territorio politicamente nepalese ma ancora culturalmente tibetano

Ma prima di arrivarci dovremo camminare ancora molto. Intanto, cric, croc. Mentre ci avviciniamo al piccolo monastero getto un’occhiata sotto gli scarponi per capire l’origine del rumore e ho l’ennesima sorpresa del viaggio: sto calpestando conchiglie. L’intero altopiano che circonda la Kali Gandaki è coperto da conchiglie; milioni di anni fa, questo era il fondo di un oceano primordiale. Oggi invece questo luogo veicola le benedizioni dell’ Oceano di Saggezza, come è chiamato l’attuale Dalai Lama, XIV di una lunga serie di  reincarnazioni. E una volta arrivati al monastero ci accolgono i mantra, le preghiere e i simboli del buddhismo tibetano scritti su lunghe fila di lung ta che garriscono nel vento himalayano: così i tibetani chiamano le bandierine di stoffa colorata recanti benedizioni buddhiste. Secondo i tibetani, quando il vento  muove le “bandierine da preghiera” diffonde ovunque i benefici dei loro mantra. Perciò i tibetani le chiamano lung ta, cioè Cavalli del Vento.

 Le atmosfere e i ricordi di questo trekking compiuto anni fa nella regione più tibetana del Nepal mi sono balzati improvvisamente agli occhi  guardando le fotografie di Giampietro Mattolin e leggendo i testi di Piero Verni, autori di un libro di raro fascino sui Paesi di cultura tibetana: si intitola Lung ta. Universi himalayani e ha in copertina l’immagine di una bandiera da preghiera che sventola davanti a una catena di montagne in Ladakh, regione di cultura tibetana che oggi è territorio indiano. Lung ta. Universi himalayani è una magnifica raccolta di racconti di viaggi – illustrati dalle poetiche immagini di Mattolin – in tutti quei piccoli “Tibet fuori dal Tibet” che per loro fortuna non sono stati funestati dall’invasione cinese.

Come scrive Piero Verni infatti «l’universo tibetano, così duramente colpito sul Tetto del Mondo, continua a vivere anche nel vasto spazio di quello che viene generalmente definito “Tibet etnico” (Ladakh, Sikkim, Mustang, Dolpo, Bhutan, ecc.). Vale a dire quell’universo himalayano abitato da popolazioni di origine tibetana che, pur non essendo mai stato governato direttamente da Lhasa, ha sempre espresso una civiltà assolutamente consonante con quella tibetana per quanto riguarda cultura, tradizioni, composizione sociale e religione. E’ palese l’importanza di questo “Tibet etnico” poiché consente di incontrare quella koiné culturale e religiosa che nel Paese delle Nevi non può più esprimersi come vorrebbe.

Infine», scrive ancora Verni nel libro «vi è il Tibet dell’esilio, quella microsocietà ricostruita dagli oltre centomila profughi tibetani che si sono insediati in India, Nepal, Bhutan,  e che cercano in ogni modo possibile di preservare il cuore della propria cultura».

Di questa “microsocietà dell’esilio” Verni dà conto nella parte finale del libro, dove racconta la drammatica fuga del Dalai Lama dal Tibet occupato e la nuova vita dei profughi (una storia che Verni conosce molto bene, avendo a lungo frequentato l’Oceano di Saggezza). Il resto del libro si presenta come una traversata di molte regioni del “Tibet etnico” himalayano (quali il Bhutan e il Sikkim)  o come approfondimenti di aspetti di grandissimo fascino della civiltà tibetana, quali il pellegrinaggio intorno al monte Kailash (venerato come “asse del mondo” e dimora di divinità) o le performance di teatro-danza religioso (cham) nei monasteri buddhisti di tutto l’arco himalayano. Ma che si tratti di descrivere un paesaggio oppure le maschere rituali dei danzatori di cham, i testi e le foto del libro esprimono sempre un amore e una conoscenza che davvero emozionano e che si vorrebbe trovare più spesso nei libri italiani sull’Asia.

Come nel caso del Ladakh, diversi fra questi “Tibet fuori dal Tibet” un tempo indipendenti oggi sono territori inglobati nell’India del nord. E’ il caso anche dell’Arunachal Pradesh (letteralmente: “la Terra dove l’alba illumina le montagne”), uno degli Stati più orientali dell’Unione Indiana, quasi isolato e impervio, con un’altitudine media di 3500 metri. Il capitolo dedicato all’Arunachal Pradesh è di particolare interesse per il lettore italiano in quanto in Italia questo Stato indiano è quasi sconosciuto: non è stato pubblicato nulla ed è pochissimo frequentato dal turismo. A torto, va detto. Perché Verni e Mattolin mostrano come l’Arunachal Pradesh sia interessante sia sul piano antropologico – per la presenza di diverse minoranze etniche che praticano l’animismo e lo sciamanesimo – sia sul piano spirituale e culturale, perché conserva tante testimonianze del buddhismo tibetano. In primis quelle della vita (1685-1706) del più discusso fra tutti i Dalai Lama: il VI, che qui nacque e qui è tutt’oggi celebrato in un monastero a lui dedicato.

La storia di questo antico predecessore dell’attuale Dalai Lama è raccontata da Piero Verni con dovizia di particolari divertenti; il VI Dalai Lama in pratica si presentò come un gran “peccatore”, facendo tutto l’opposto di ciò che ci si attendeva da lui: si accompagnava a belle donne, conduceva vita da gaudente, componeva poesie d’amore che divennero molto popolari fra la gente del Tibet. Finché l’imperatore della Cina, contrariato, inviò il suo esercito a prelevarlo e il giovane Dalai Lama durante il viaggio morì. Questa è la versione ufficiale. Ma ne esiste un’altra, secondo cui il VI Dalai Lama riuscì a fuggire e continuò a viaggiare, sotto mentite spoglie, impartendo insegnamenti in varie parti dell’Oriente. Questa (presunta) seconda parte della sua vita fu raccontata cinquant’anni dopo da un lama mongolo e raccolta in un libro intitolato La biografia segreta del VI Dalai Lama (in Italia è pubblicata da Ubaldini/Astrolabio). Questo Dalai Lama “eccentrico” fu un mistico tantrico oppure solo un gran gaudente? E la sua biografia segreta dice la verità oppure no? I tibetani ne discutono ancora. E forse per sapere la verità dovranno ascoltare i sussurri delle bandiere da preghiera mosse dal vento dell’Himalaya.

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  Il libro e gli autori

Il libro fotografico di cui parliamo in questo articolo si intitola Lung ta. Universi tibetani (Grafiche Leone) ed è il terzo di una trilogia – comprendente anche i volumi fotografici Himalaya e Mustang – dedicata ai luoghi di cultura buddhista tibetana. Gli autori, Giampietro Mattolin e Piero Verni, sono entrambi profondi conoscitori del mondo himalayano. Mattolin (www.fotomattolin.it), fotografo internazionale e autore delle immagini pubblicate in queste pagine, è anche fondatore dell’Associazione Heritage, che promuove la difesa del patrimonio culturale delle minoranze etniche minacciate. Verni, giornalista, scrittore e documentarista televisivo, è uno dei maggiori esperti italiani di civiltà tibetana. Autore di un gran numero di libri sull’argomento – fra cui Dalai Lama. Biografia autorizzata – è stato per 14 anni presidente dell’Associazione Italia-Tibet e oggi cura il blog d’informazione Free Tibet (www.freetibet.eu).   M.R.

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Quello che avete letto sopra è un mio articolo apparso tempo fa sul mensile Yoga Journal. Attendo i vostri commenti – in particolare di chi ha avuto la fortuna di mettere piede nelle regioni himalayane.  Un caro saluto a tutti, Marco Restelli.

Foto di Giampietro Mattolin dal libro “Lung Ta”


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