Dovrebbero ribellarsi le pappagalline del premier, che ogni volta rinnova loro l’incarico di dire l’improvvido e smentirlo, di decretare l’inopportuno e sospenderlo. Ancora una volta è toccato alla più infilzata delle madonnine, la Madia, quella che confonde competenze e ministeri a cominciare dal suo, quella che alla sua prima elezione rivendicò orgogliosa la sua ignoranza (e mai come ora ci chiediamo da che cursus studiorum e da che università arrivi). Si dice che dobbiamo a lei l’emendamento al Ddl della Pubblica Amministrazione presentato da Marco Meloni che proponeva di “superare” il “mero voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso” ai concorsi pubblici introducendo la “possibilità di valutarlo in rapporto ai fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato”. In parole così povere che le potrebbe capire anche la Madia, nasceva dall’intento di applicare criteri di selezione e valutazione della “autorevolezza” e qualità dell’università che ha rilasciato il titolo di studio. E ancora a lei dobbiamo la quasi simultanea decisione di ritirare lo sconsiderato provvedimento che, a suo dire, nasceva dalla opportunità di scoraggiare le università telematiche, a smentire se stessa e tutta la retorica cara al governo, delle magnifiche sorti e progressive della virtualità, della banda larga, della formazione permanente tramite rete preambolo doveroso a precariati da svolgere in casa, quando la si ha, in modo da essere sempre più isolati, sempre più soli, sempre meno tutelati e sempre meno uniti da rivendicazioni comuni.
Anche noi, per dir la verità, siamo inclini a sollevare dei dubbi: su quelle di Tirana, sulla Bocconi che ha laureato non solo Sara Tommasi, ma anche Monti, per non dire della Facoltà di Economia che ci ha elargito la Fornero, ma anche sul San Raffaele che in via reale e anche in via virtuale combina spericolatamente e con pari dignità discipline filosofiche e scienze motorie, su vari laureifici per futuri manager al servizio di azionariati rapaci, per comunicatori a colpi di tweet e per lobbisti spregiudicati e disinvolti.
È che per questa classe dirigente la mercatizzazione di tutto a cominciare dalla cultura che serve solo se si converte in merce commerciabile, è una tentazione irresistibile. Come fa parte della sua indole la promozione di disuguaglianze e il consolidamento di quelle che ci sono già. Infatti nulla ci è stato detto su quale organismo avrebbe dovuto – ma possiamo star certi che la proposta, come si dice a Roma, “riciccerà”, proprio perché è premessa di portare ciccia e profitto nelle solite tasche e di beneficiare delfini di dinastie abbienti ma indolenti – assumersi l’onere della valutazione e della prova degli atenei, probabilmente l’Anvur, Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca, che tante prove ha già dato di inadeguatezza, arbitrarietà, approssimazione, o magari il Censis, per trovargli nuove collocazioni e ragioni di esistenza in vita, cui si deve una Guida, predisposta in collaborazione con la Repubblica, che redige opinabili e non sorprendenti liste di merito e demerito degli atenei pubblici e privati: così in testa svettano gli atenei di Bologna (97.8), Perugia (95.2), Siena (103.2), Camerino (95,8) e Milano (Politecnico – 97.0). Tra le private, invece, appaiono degne di nota la Bocconi (91.6), la Luiss (86.4) e l’università di Bolzano (104.2).
E basterebbe questa citazione dalla Guida a far capire che sarebbero quelli gli indicatori ispiratori della pensata governativa: collocare tra le università “buone” da preferire in previsione di una carriera dirigenziale quelle del Nord, quelle più grandi, quelle che sfornano a raffica più laureati da parcheggiare in onerosi quanto futili master, quelle private, in possesso dell’autorevolezza che viene da testimonial sospetti, da generosi finanziamenti estratti dalle nostre tasche, dalla visibilità garantita dalla compagnia girovaga di opinionisti e commentatori chiamati a propagandare ideologie e teocrazie dello sfruttamento, come qualche giorno fa sottolineava il Simplicissimus qui https://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2015/06/18/buona-scuola-una-minchia/. E relegare tra le “cattive”, da impoverire e penalizzare fino alla morte, quelle piccole, quelle di provincia, quelle del Mezzogiorno, proprio come accadrà presto per gli istituti scolastici grazie alla Buona Scuola. Quelle che hanno conquistato attrattività grazie alle materie umanistiche, detestate in quanto aiutano a pensare, a vedere, a decidere, punite perché educano alla disubbidienza ed all’indipendenza, perché indicono ad aspirare a quella bellezza che non si deve vendere né comprare, come non dovremmo vendere le nostre anime a questi diavoli miserabili.