Uno premette anche (però cazzo!)

Creato il 27 maggio 2014 da Marina Viola @marinaviola


Premetto che anche nella mia famiglia ci sono state delle frasi storiche, dette senza pensare, e che se raccontate dalla parte di chi le dice, se ne coglie, invece dell’offesa, solo l’ironia. Due esempi mi vengono in mente: il primo è la frase che mio nonno Franco, rinomato burbero, disse a un collega di mio padre. I due amici erano in sala a casa nostra, e mio nonno era lì con loro. L’amico di mio padre, che mio nonno non aveva mai visto, raccontava di come era stato fregato non so bene come, e il Moretti, senza essere ovviamente interpellato, disse: “Certo, con quella faccia da pirla che ha, non ci vuole molto a fregarla”. 

Il secondo esempio viene invece da mia zia Milena, che in famiglia è conosciuta come quella ‘senza filtro’. Era a trovare la mamma di un mio compagno delle elementari, in lutto perché qualche giorno prima il marito si era suicidato, defenestrandosi. Mia zia, che voleva dire qualcosa per rincuorarla, disse: “Che tragedia, roba da buttarsi giù dalla finestra!”. 

Ecco, per cui, premetto che a volte si dicono delle cose sbagliate in un momento sbagliato. 

Premetto anche che in qualsiasi mio circolo di amici, ma anche all’interno della mia famiglia, io sono sempre considerata la polemica, quella a cui non va mai bene niente, che ne ha sempre una, che esagera sempre. La classica rompicoglioni, insomma. 

Premetto che ho le mestruazioni e che oggi ho scoperto di aver preso un chilo bastardo. 

Premetto che Dan è la persona più perfetta di questo mondo, e che le mie figlie faranno una fatica pazzesca a trovare qualcuno che possa anche lontanamente somigliargli. Per esempio, domenica avevamo diciotto persone a cena, e ha fatto tutto lui: io sono andata a fare la spesa, così che potessi stare senza figli per un’oretta, ma lui ha cucinato, ha apparecchiato, ha sparecchiato, e quando gli ho chiesto come potevo aiutare lui ha detto: stai seduta a leggere, non ti preoccupare. Senza ironia, tanto che io ho ubbidito senza batter ciglio. 

Premetto che novantanove su cento predico bene e razzolo malissimo, facendola spesso fuori dal vaso. 

Però cazzo, una seppur minima pausa prima di parlare a volte è sacrosanta. Prendiamo ieri. 

Eravamo a cena da una conoscente. Premetto due cose, visto che oggi è il giorno delle premesse: la prima è che né io né Dan avevamo molta voglia di esserci, per vari motivi che non sto qui a raccontare che sono anche noiosi. La seconda è che arrivo sempre da loro un po’ titubante per il semplice fatto che a parte l’ultimo anno in cui hanno dimostrato di aver notato Luca, per anni sono stati latitanti malgrado vivessimo vicini, e ci abbiano lasciati completamente soli nella fase forse più difficile della nostra vita, per cui più che titubante mi girano sempre leggermente le palle andare lì e fare quella che fa finta di niente. Transit. 

Eravamo in cucina a chiacchierare e lei mi chiede del libro che sto scrivendo e le spiego che sto raccontando i difficilissimi anni che ho passato con Luca, da quando abbiamo scoperto che aveva la sindrome di Down, poi l’autismo, poi tutte le operazioni varie, poi il senso di solitudine e di desolazione che ho provato e che a volte provo ancora, e di come queste esperienze mi abbiano comunque resa forte e mi abbiano aiutata a superare blah blah blah. Lo dico a lei, ripeto, che non ha mai alzato un dito per aiutare. Mi fa: “Beh, hai visto che poi è servito soffrire? Altrimenti di cosa scriveresti adesso?” È una battuta, lo so. Ma detta da lei mi ha fatto sentire dentro di me un alzamento di pressione a livelli da ictus cerebrale, perché se l’avesse detta una persona che ci ha se non altro tenuto la mano, ascoltato, chiesto in tutti questi anni farebbe anche (quasi) ridere. Detta da lei, no. Dico ma perdìo, se non hai il dono dell’ironia, non fare battute del cazzo. O sbaglio? 

È come la battuta che aveva fatto, sempre lei, quando era rimasta incinta e mi spiegava perché avrebbe fatto l’amniocentesi. Disse, come se nulla fosse: “Sai, io e mio marito non lo vogliamo un figlio Down”. Premetto che capisco che sia una decisione assolutamente personale, e che non sono io a giudicare se sia giusta o no, e che dipende dalle situazioni, e che spesso una persona Down non si merita di avere genitori che non la vuole. Premetto, un’altra volta premetto, che io avevo ricevuto da poco la diagnosi di mio figlio che guarda caso era sindorme di Down. E premetto che sicuramente, come la frase infelice di mia zia del buttarsi giù dalla finestra, è uscita così, senza pensarci. Ma premesse a parte, mi sembra scema. 

Stanotte ho dormito poco e male perché Emma è venuta nel lettone e ha occupato la mia parte con le sue braccia lunghissime, per cui mi sono svegliata alle quattro e alle cinque emmezza bevevo il primo caffé. Ho poi preparato la colazione per Luca, il pranzo per Emma, il caffé per Dan, e mi sono seduta con lui mentre lo sorseggiava. “Ho sonno” gli ho detto. E lui “Perché non torni a dormire?” 

Ripeto che è l’angelo più angelo che si possa immaginare. Però cazzo. A parte il fatto che finalmente dopo anni diciassette ad aver fatto solo ed esclusivamente la mamma adesso posso vantare di un ‘lavoro’ che metto tra virgolette perché non guadagno e lo faccio per piacere, ma per me è importante. A parte il fatto che stamattina prima di venire in studio a lavorare dovevo: piegare quattro bucati, compilare le iscrizioni dei campi estivi di Sofia e Emma, rispondere alle lunghe email della coordinatrice del caso di Luca con cui sto negoziando di cambiare agenzia terapeutica, chiamare il veterinario che Lola ha un’infezione all’orecchio, fare i letti, la cucina, un po’ di spesa e passare dalla farmacia, la domanda perché non torni a dormire implica, nella mia mente da rompicoglioni, il fatto che siccome sono a casa posso cazzeggiare, o tornare a letto. La rispostaccia è partita senza filtro, seguita da enormi sensi di colpa. 

Perché senza premesse si passa sempre per delle rompicoglioni.

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