Uno scrittore bravo o utile?

Da Marcofre

“Questo è il vero dovere che abbiamo nei confronti della società: essere un granello che si caccia nell’ingranaggio della macchina dello stato”.

Questo era il pensiero dello scrittore inglese Graham Greene (sceneggiatore, tra l’altro, di un film fondamentale: “Il terzo uomo” con Orson Welles).

A questo punto mi sono trovato un po’ in difficoltà perché ero d’accordo con questa affermazione, ma pure con un’altra, quella di Raymond Carver che invece affermava che lo scrittore deve essere bravo, non utile. Se è utile, avrà il destino dei manifesti elettorali. Passate le elezioni, nessuno ci baderà più (ammesso che le persone ancora ci badino…).

Mentre un autore, se è bravo (vedi Dostoevskij) riuscirà comunque a sopravvivere, oltre il periodo elettorale.
In realtà, la faccenda è più complessa di così.

Di recente ho riscoperto Graham Greene. Anni fa avevo letto “Il nostro agente all’Avana”, e non ero rimasto molto impressionato. Poi, un amico, mi ha convinto a dargli un’altra possibilità.

Aveva ragione.

Ma torniamo alla frase.

Certo, mi rendo conto che si può liquidare con estrema facilità:

“Scrivi le tue storie e non ti infarcire la testa di domande filosofiche.”

Però la scrittura è un’attività sociale e per questa ragione certe questioni in qualche modo si devono affrontare.

In realtà, non credo che ci sia grande divergenza tra il pensiero di Carver e quello di Greene. Perché sia l’uno che l’altro erano bravi.

Questo scrittore inglese, nel romanzo “I commedianti”, conduce il lettore nell’isola di Haiti(1), dominata da papà Doc e i suoi Tonton Macoutes. Erano la sua milizia privata, che girava armata di machete: per instaurare il terrore, anche la scelta delle armi è importante.

Al di là della denuncia di una dittatura che proseguirà fino agli anni Ottanta (il figlio, Baby Doc, credo però che giri ancora a Haiti), c’è una storia.

Diamo un’occhiata a un altro importante romanzo di questo autore inglese: “Un americano tranquillo”.

Siamo in Vietnam, con gli Stati Uniti che stanno gettando le basi per stabilirsi nella regione a scapito dei francesi (e come finirà il loro intervento, lo sappiamo bene).

L’americano tranquillo è un tipo che crede con forza nel ruolo degli Stati Uniti come nazione capace di portare prosperità e pace nella regione. Difendendo i propri interessi, e quelli dell’Occidente, mal rappresentati dai francesi. Fu un libro considerato “antiamericano” quando fu pubblicato negli USA.

Sia in questi, che negli altri libri di questo scrittore, c’è la capacità di creare dialoghi, personaggi, l’intreccio, che in prodotti più “blasonati” non esiste affatto. Greene non sale su alcun piedistallo, ma sempre, la sua voce illustra, mostra simpatia, compassione per i personaggi, i loro guai. La loro miseria.
O uno scrittore ha compassione, oppure è pericoloso.

Buona parte delle sue opere sono state adattate per il grande schermo (mai sentito parlare de “Il console onorario”? È tratto da un suo romanzo). E questa sua popolarità lo ha allontanato dalla critica che, come si sa, non apprezza un autore popolare.
Lo preferisce morto nell’oblio.

Ecco allora il punto: occorre essere bravi. Come? Scopro l’acqua calda? Mica tanto. È sufficiente gettare un occhio alle classifiche per rendersi conto che l’appartenenza a certi circoli garantisce visibilità, recensioni, amicizie.


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