In una delle mie molte veglie notturne, ieri mi sono affacciato dalla finestra per guardare la luna. Attorno alle 2,30 era già ad occidente, ma non era ancora tramontata. Era piena o quasi, luminosa e indugiante. Sono tornato a letto col pensiero alle cose belle che stanno da qualche parte soltanto per noi, per i nostri occhi, appena per il tempo di essere notate. Che cosa è uno sguardo, cosa significa e quanto dura, mi sono chiesto andando col ricordo a qualche giorno fa, quando ho accompagnato mio figlio a scuola e, al momento di salutarci, lui mi ha guardato più a lungo del solito. I nostri visi erano vicini l'uno all'altro e gli occhi non riuscivano ad allontanarsi nel momento in cui invece avrebbero dovuto farlo: erano trattenuti da uno sguardo che avrebbe voluto dire qualcosa, aggiungere altro da un addio, forse evitarlo.
E allora mi sono fatto l'idea che gli occhi, come le parole, servono per parlare, dire, chiamare. E sono anche come le mani, che hanno la funzione di tenere, mantenere, trattenere. E sia le parole, quando sono gridate, che le mani, quando stringono forte, lo fanno perché qualcuno potrebbe non sentire o qualcosa fuggire.
A prima vista, ma so di sbagliarmi a causa della stanchezza notturna, tutto ciò mi appare come una contraddizione in termini: perché mai, infatti, dovremmo forzare ciò che evanescente e affidarci a un miraggio?
Prima di riaddormentarmi ho ricordato ancora una volta lo sguardo di mio figlio a cui non ho saputo rispondere e ho capito di aver guardato la luna come se stessi stringendo sabbia in un pugno o, peggio ancora, acqua piovana.