Uno sguardo fugace nella stanza proibita

Creato il 12 marzo 2015 da Francosenia

Le ultime battaglie
- Il maggio parigino del 1968, il dicembre parigino del 1995 ed il recente accordo tedesco sul lavoro -
di Robert Kurz

Il maggio '68 in retrospettiva
Chi non si ricorda del maggio parigino? Anche chi non c'era perché era nato troppo tardi, se lo ricorda sulla base dei documenti storici, e ancora oggi il maggio del 68 vaga nella letteratura come un'anima in pena. Il maggio parigino del 68, non il maggio di Berlino o di Francoforte che sono stati un simulacro del maggio. La Francia, di fatto, venne scossa fin nelle sue fondamenta borghesi, e de Gaulle si gettò fra le braccia del generale Massu, che non vedeva l'ora di mandare a Parigi i carri armati dell'esercito francese che si trovavano di stanza in Renania. La rivolta degli studenti, innescata da un piccolo gruppo di marxisti di sinistra, i cosiddetti "situazionisti" dell'Università di Nanterre, fu una vera e propria scintilla in grado di appiccare il fuoco alla steppa: le lotte all'Università innescarono, com'è noto, una colossale ondata di scioperi e innumerevoli occupazioni delle fabbriche da parte dei lavoratori. A differenza del relativamente pallido movimento del 68 in Germania, il maggio parigino sembrava porre all'ordine del giorno la questione dell'emancipazione sociale, e la base del sindacato era pronta allo scontro sociale. Dal 3 di maggio al 30 di giugno del 1968, il potere del sistema dominante apparve paralizzato. Daniel Cohn-Bendit - già allora vanitoso al massimo grado, seppure non ancora rincretinito dalla forza della democrazia - scriveva in maniera infiammata e virulenta, parafrasando il Manifesto Comunista:
"Per la costruzione delle barricate, il movimento rivoluzionario ha rotto il muro del silenzio [...] Uno spettro si aggira per il mondo, lo spettro del radicalismo di sinistra. Tutti i potenti del vecchio mondo si sono alleati in una crociata contro questo spettro: il papa e Kosygin, Johnson e de Gaulle, i comunisti francesi e le polizie tedesche."
I comunisti francesi, in quanto Partito Comunista Francese (PCF), nello stile comune ai partiti della sinistra occidentale, erano stati in grado di di strangolare e canalizzare il movimento, attraverso la via parlamentare e grazie alla loro influenza sindacale. La possibilità, rifulgente per un breve momento storico, di attuare, in un paese capitalista altamente sviluppato, una sollevazione rivoluzionaria ed un'emancipazione sociale, andò dispersa al vento. E considerando la distanza storica, non furono soltanto le manovre burocratiche del PCF, e neppure le reazioni della borghesia - per esempio, un'affollata manifestazione dei commercianti della classe media contro i loro figli ed a favore del monumento nazionale che era de Gaulle - a frustrare la sovversione rivoluzionaria. Fu anche una strana cecità a proposito degli obiettivi del movimento stesso - cecità che non può essere spiegata solo per mezzo della spontaneità, e a partire dalla quale una fugace possibilità venne ancora una volta ricacciata nell'impossibile.
Ci furono certamente molte parole che si levarono senza tuttavia riuscire a costituire dei veri e propri concetti di una trascendenza in relazione al mondo borghese. Jacques Sauvageot, uno dei leader studenteschi, parlò, per esempio, di "autogestione delle imprese da parte dei lavoratori", di un "socialismo non-autoritario", del "potere studentesco", di "tradizioni anarchiche" e di "eredità delle rivoluzioni francesi del XIX secolo". Ci fu anche il momento di una ribellione romantica contro il "lavoro". "Sotto il selciato la spiaggia" - una parola ripetuta in ogni momento; "auto-organizzazione" - ma di che cosa, e con quale qualità sociale? In retrospettiva, salta agli occhi che la radicalità (a somiglianza delle rivoluzioni della modernizzazione borghese di recupero nell'Est e nel Sud) si riferisse più alle forme di organizzazione ed ai processi politici, piuttosto che alla questione di una desiderata riproduzione non-capitalistica della società.
La critica radicale dei situazionisti alla forma di riproduzione sociale del feticismo della merce, rimaneva - come problematica della critica - un programma minoritario. Al massimo, tale programma si infiltrò indirettamente nelle dichiarazioni del movimento e venne allora compreso, tutt'al più, in un senso solo culturalista. Era stato un malinteso? Forse soltanto in parte. Di fatto, le formulazioni dei situazionisti venivano prese di solito più come cultural-rivoluzionarie, che come critiche dell'economia in senso stretto. Le due cose non si escludevano necessariamente a vicenda, anzi, al contrario, facevano parte dello stesso tutto. Rimaneva aperto, tuttavia, il problema di sapere fino a che punto un'emancipazione dalle costrizioni di una relazione totalizzata, quella denaro-merce, poteva essere messa in pratica senza negare il potenziale delle forze produttive moderne. Non c'era mediazione alcuna, solamente il grande gesto.
A maggior ragione, la volontà dello spontaneo movimento operaio francese del 68 non superava l'orizzonte della socializzazione della merce, per non parlare della citata tradizione "delle rivoluzioni francesi del XIX secolo". Il "guadagnare denaro", questa attività propria della borghesia, non veniva seriamente messa in discussione dalla maggioranza dei partecipanti al movimento, cioè, non veniva messa in discussione da un punto di vista socio-economico, ma soltanto, nella migliore delle ipotesi, in maniera metaforica e culturalista. Così, il fatto che il movimento di massa venisse disidratato per mezzo dell'istanza parlamentare e del deplorevole piano sindacale che esigeva "un salario equo per un'equa giornata di lavoro", fu solo il saldo di un limite immanente del movimento stesso. Quello che per l'ultima volta annunciavano i manifesti del Maggio parigino, era l'eterno film dei movimenti rivoluzionari "socialisti" e "proletari" d'Occidente: un piccolo passo in direzione di un orizzonte sconosciuto, per poi essere costretto dalla massa inerte della coscienza monetaria a tornare alla forma della circolazione borghese, la cui incessante riforma rimane come unico ed esclusivo obiettivo tristemente immanente.
Questo processo paradigmatico, stilizzato dai radicali di sinistra come l'eroica storia delle sconfitte, indica, in realtà, il carattere intrinsecamente borghese della propria intenzione, solo la cui forma è rivoluzionaria. La seconda, terza, quarta e quinta infusione di ragione illuminista e modernizzatrice della borghesia, della rivoluzione borghese e della sua avanguardia giacobina, ha reso solo capace - anche se in abiti marxisti o anarchici - di percorrere le stesse tappe, in una versione sempre più tenue, come un'orbita dei corpi celesti determinata astronomicamente, sul cui modello del resto si basa il concetto di rivoluzione (preso in prestito da Copernico).
Quanto più è sviluppata una società moderna produttrice di merci, determinata dal movimento della valorizzazione monetaria, tanto meno essa ha bisogno, per la sua successiva storia evolutiva, di un'avanguardia giacobina, che diventa disfunzionale come un'appendice cieca, e come tale degenera, quale che sia la forma di legittimazione ideologica, in una sorta di sintomo folcloristico dell'epidemia della modernizzazione. Il maggio parigino 1968 è stato forse un breve sguardo fugace nella stanza proibita, ma la porta ben presto è stata chiusa a chiave e i turisti rivoluzionari sono stati riportati, in fretta e furia, alle vecchie dipendenze originarie della rivoluzione borghese. Non è mancata neanche la mancia.
Alla fine, il maggio parigino non è stato capace di sostenere e sviluppare la sua nuova idea di emancipazione sociale oltre quella che era la società occidentale e capitalista. La scia luminosa dei situazionisti si è rapidamente dissipata, ed è rimasta mal conosciuta dal movimento tedesco del 68. Invece, gli sguardi si sono sempre più rivolti verso i luoghi dove il vecchio processo appariva ancora giovane e fresco: il Terzo Mondo. La solidarietà ai movimenti di liberazione anti-imperialista non è stata data in nome di una trasformazione che doveva andare oltre il sistema moderno produttore di merci, dal cui contesto i ritardatari storici sono stati oltretutto esclusi, ma proprio in nome del contrario: la rivoluzione borghese-recuperatrice del Terzo Mondo è stata elevata a modello, poiché al suo calore era perfettamente possibile scaldarsi in maniera pseudo-giacobina. Infatti, quanto più è sottosviluppata una società produttrice di merci, quanto più è costretta a lottare sotto l'egida di una modernizzazione ritardataria - per la sua auto-affermazione economica contro i concorrenti che hanno preso la stessa iniziativa sullo stesso terreno di questo modo di produzione nella sua forma dell'interscambio globale (mercato mondiale) - allora tanto maggiore è l'importanza dell'avanguardia giacobina, quale che sia la sua configurazione ideologica.
Si ripeteva, pertanto, il paradosso storico in cui la coscienza (secondo la comprensione che essa ha di sé stessa) del movimento rivoluzionario, nelle società moderne più sviluppate in termini capitalistici, diventava un semplice puntello della coscienza di una rivoluzione borghese di recupero secondo il modello capitalista nelle società meno sviluppate. Proprio come il vecchio radicalismo occidentale di sinistra non è andato mai oltre il ruolo di fratello minore della rivoluzione d'Ottobre, così è avvenuto anche per il radicalismo della nuova sinistra rispetto ai movimenti di liberazione del Terzo Mondo. Come risultato, il proprio impulso romantico ha scambiato la critica al "lavoro" per il romanticismo della lotta armata ed i suoi simboli, che nelle fasi iniziali non erano altro che il simbolo del "lavoro" e della sua storia evolutiva di recupero, così come ben presto sarebbe diventato manifesto dappertutto a causa del carattere repressivo del nuovo regime. Quando emerse il volto informe e per niente romantico della modernizzazione ritardataria e dell'operazione statale di "valorizzazione" del Terzo Mondo, l'intellighenzia del 68 cercò rifugio, in lacrime, nel grembo materno e borghese dell'Occidente democratico. La conversione ipocrita di una forma repressiva in una forma libertaria, in Occidente, poteva sfociare soltanto nella libertà di mercato del soggetto concorrente individualizzato.

Nel 1968, Cohn-Bendit faceva pratica di come lui ed i suoi colleghi potevano servirsi delle leggi del mercato in maniera sovrana, nella loro condizione di radicali di sinistra anti-autoritari: "Perché accettiamo il suggerimento di scrivere questo libro? Per pagare con la stessa moneta, per volgere le leggi di mercato di questa società contro sé stessa e dire alla fine quello che da molto [...] doveva esser detto" ( Cohn Bendit, Gabriel E Daniel - L'estremismo, rimedio alla malattia senile del comunismo - Einaudi ). All'epoca, questo venne probabilmente scritto con un occhio alle probabili recriminazioni moraliste per cui Cohn-Bendit si sarebbe venduto all'editore borghese. Sarebbe sicuramente ridicolo rifiutare la possibilità di entrare nella circolazione borghese con contenuti anti-borghesi, una volta che la circolazione nella società borghese - nella quale l'amore stesso assume forma di merce - è l'unico modo di intermediazione con cui le idee possono diffondersi ampiamente e rapidamente. Ma il problema sta nel sapere se le idee possiedono, in qualche modo, un solido nucleo anti-borghese e se possono conciliarsi con una prassi che superi il sistema della forma-merce totalizzata. Sotto questo punto di vista, il movimento del 68 fu accondiscendente. E' questo il motivo per cui oggi Cohn-Bendit è un idiota storico dell'economia di mercato - e non solo lui, come tutti ben sanno.
Nel guardarsi indietro, il mediocre democratico ecologico afferma che il 68 fu "l'ultima rivoluzione che ancora non sapeva nulla del buco dell'ozono". Considerando la sua fisionomia sociale e quella dei suoi colleghi, possiamo dire che il 68 fu l'ultima rivoluzione che potè ancora ottenere un ingresso nel funzionariato pubblico. Il maggio parigino è stato, inappellabilmente, lo scontro finale della rivoluzione civil-proletaria nella modernità, l'ultimo sussulto di un giacobinismo diventato asmatico, l'estrema battaglia della coscienza fondata sul "guadagnare denaro" che potesse ancora essere diffusa sotto abiti rivoluzionari. Questa rivoluzione ha messo un punto di fine al processo, in quanto ha superato da molto il suo obiettivo immanente. Le rivoluzioni (nella loro forma-merce) che ancora oggi vengono propagandate, avvengono solo nei testi pubblicitari di un consumo senile. La rivoluzione politica era la strada del feticismo, ed il bilancio non ha niente di romantico. L'idiota urbano, devoto al consumo, ed il ricercatore di brecce nel mercato hanno trionfato. Il prezzo lo discuteremo in seguito.
Forse tutto questo suona un po' ingiusto in relazione al maggio parigino, che dopo tutto non poteva sapere dove sarebbero andati a parare i suoi protagonisti. Questo è vero solo in parte, quindi è falso. Il maggio parigino aveva piena coscienza del fatto che esso stesso, in ultima analisi, si proibiva l'ingresso nella stanza proibita. E non solo il maggio parigino in senso immediato, ma il movimento antiautoritario come un tutto. Ecco perché si arrese così rapidamente alla credulità autoritaria, dapprima all'autorità socialdemocratica o bolscevica (sebbene quest'ultima fosse solo una mera fantasia carnevalesca), e poi all'assoggettamento incondizionato alla "autorità" delle leggi impersonali del mercato. La forma di dominio incognito della democrazia - che già nel suo nome racchiude l'auto-repressione - era stata festeggiata durante la fase antiautoritaria. Perciò, non sorprende che i "nuovi filosofi" alla Gluksmann, nei loro scritti propagandistici superficiali che osavano chiamare "filosofia", celebrassero alla fine un capitalismo occidentale spogliato della sua storia; così come non sorprende il fatto che Cohn-Bendit e i suoi seguaci oggi facciano parte di una classe politica che prima combattevano.
Dietro questa gioventù ribelle della classe media e, ovviamente, anche della classe lavoratrice, si nascondeva un solido nucleo piccolo-borghese. I piccolo borghesi sono tutti coloro che si prendono per una sorta di venditori ambulanti e che sono incapaci di immaginare che la compravendita di sé stessi un bel giorno finirà - insomma, letteralmente tutti. Che il "borghese", come tale, si nasconda nella forma-merce totalizzata dal capitalismo, è qualcosa di cui i combattenti delle barricate del 68 non seppero prendere atto. Questa non era solo ignoranza o mancanza di conoscenza, ma era un rifiuto consapevole della possibilità di fare dichiarazioni concrete a proposito del superamento delle relazioni fondate sulla merce e di proporre gli strumenti pratici e palpabili per realizzarlo. E non fu solo la consapevolezza del fatto che i lavoratori avrebbero rifiutato quest'idea "mostruosa", giacché lo avrebbero fatto (compresi gli occupanti delle fabbriche). Nonostante tutta la retorica romantica contro il "lavoro" e per "la spiaggia sotto il selciato", nella maggioranza delle teste del 68, la legge ferrea del denaro rimaneva intatta nella sua validità. A tal proposito, l'ottusità sindacale era generalizzata. Il percorso dato dal'impulso francese, soprattutto in Germania, era evidenziato dalla composizione assurda del titolo di una vecchia rivista della sinistra antiautoritaria di Francoforte, " Pflasterstrand" ("spiaggia-selciato"); non a caso, da quest'associazione nascerà la fazione principale dei "reali" (pragmatici) del Partito Verde" e dei simpatizzanti "urbani" dell'economia di mercato.
Ora, già all'epoca, la negazione cosciente dell'idea di assumere la critica ed il superamento pratico del feticismo della merce, era stata ideologizzata ed innalzata a principio. Sappiamo che il nuovo radicalismo di sinistra, come un tutto, era oriundo della Teoria Critica e dei marxisti che transfughi dall'esistenzialismo, proclamavano il divieto di rappresentare concretamente la società neo-capitalista e la riproduzione "auto-organizzata". In realtà, tale negazione, coscientemente vaga, era un'autodifesa della coscienza borghese contro le probabili conseguenze della sua stessa critica sociale. Fino ad ora non si è avuta una definizione economica della riproduzione che fosse estranea alla forma merce, poiché il radicalismo di sinistra - in tutte le sue varianti, sia nella versione atletica che in quella amante delle bella letteratura - ha proibito a sé stesso, a ragion veduta, un simile compito. E precisamente, in nome della determinazione e dell'organizzazione autonoma del movimento rivoluzionario, la cui gloriosa prassi non doveva essere fustigata teoricamente in anticipo!
Rare volte, nella storia delle idee sociali, si è messo in campo un pretesto così grossolano.
Probabilmente non si attagliava bene al grande gesto rivoluzionario dei protagonisti, lo sviluppare mere definizioni economiche e forse perfino rudimenti pratici al fine di svincolarsi dallo Stato e dal mercato; sarebbe sembrato troppo volgare e futile, magari molto "femminile", in quanto non direttamente relazionato ai gesti primordiali della guerriglia latinoamericana (le donne hanno sempre un che di insignificante, di infausto, agli occhi dei gloriosi spavaldi della teoria e della politica). E questo, anche se il più piccolo progresso verso l'emancipazione dalla forma-merce sarebbe bastato a scatenare un conflitto con la struttura borghese di riproduzione, il che avrebbe innescato un movimento di guerriglia - ma senza dubbio in una maniera del tutto diversa da quella che piaceva immaginare ai protagonisti del 68 ed ai loro discendenti ideologici.

Gli eterni giovani vestiti di impermeabili, con l'eterno sigaro all'angolo della bocca e gli occhi eternamente giovani, eternamente pronti ad equivocare il concetto di emancipazione sociale come se fosse un genere letterario; i piccoli Danton e Mirabeau col microfono in pugno, in cerca di un'occasione; i simulacri di Emiliano Zapata, con la barba lunga e le giacche di cuoio, pericolosi e desiderosi di avere libero accesso a qualsiasi serata dell'alta borghesia; dottorandi arrivisti, interessati solo alla laurea, maschere delle rivoluzioni borghesi che un giorno verranno esibite nelle sfilate di mode come pezzi della collezione d'autunno. I rappresentanti del 68 ed i loro seguaci semplicemente non erano ancora del tutto sicuri se, con l'utopia e "l'interamente altro", come primo passo della carriera, dovevano optare per diventare letterati, professori o politici borghesi.
I lavoratori delle fabbriche occupate hanno ricevuto, quindi, solo quindici anni più tardi - quando avevano già da tempo dimenticato la domanda - una risposta circa il problema economico di un "socialismo antiautoritario": le imprese autogestite, come parte integrante del mercato, devono guadagnare il loro denaro "alternativamente", ci hanno detto i cervelli del movimento alternativo. Il "totalmente altro" già allora aveva un aspetto abbastanza malinconico e piccolo-borghese. Ne conosciamo anche i risultati. In Germania, del resto, nel 68 non ci furono nemmeno fabbriche occupate, in quanto gli agitatori del movimento antiautoritario vennero sbaragliati, davanti ai cancelli delle fabbriche, dai fanatici del miracolo economico, che a quei tempi stava per finire. Ecco perché in Germania la farsa rivoluzionaria della classe media poté essere messa in cartellone senza rischi, seppure non senza gli effetti collaterali di uno scoppio di modernizzazione economica del mercato, di cui purtroppo ancora oggi si conserva orgoglio.
A parte i rimpianti, la forza d'irradiazione del maggio parigino era costituita dal fatto che la stanza proibita sia rimasta aperta per un istante, almeno apparentemente,anche perché nessuno l'ha vista bene. E c'è molto da rallegrarsi del fatto che non le si sia dato uno sguardo accurato - per non parlare poi di entrare nella stanza - perché questo sarebbe stato terrificante. La valorizzazione della moneta come forma di riproduzione totale - si commenta oggi - "non ha alternative". Questo è stato dato per scontato dai sindacati in tutto il mondo, i quali finalmente non devono più temere la loro stessa idea nebulosa di emancipazione sociale. E così sarà per il futuro. Gli ambiziosi giovani con l'impermeabile si riuniscono ancora nei caffè, ma ora non inseguono più nemmeno sogni letterari.

- Robert Kurz - Pubblicato sulla rivista Krisis n° 18, 1996. - (1 di 3) -


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