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Uno sguardo sulla poesia a Sud e l’”Antigruppo” (3/4): Nord poesia, le scelte dei poeti. Saggio di Antonino Contiliano

Creato il 11 agosto 2010 da Retroguardia

Uno sguardo sulla poesia a Sud e l’”Antigruppo” (3/4): Nord poesia, le scelte dei poeti. Saggio di Antonino Contiliano

[Yves Tanguy, Gli invisibili (1951)]

di Antonino Contiliano

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Nord poesia, le scelte dei poeti*

A nord, invece, le cose seguivano altre indicazioni. Nel nuovo panorama della controversa e preoccupante realtà che si andava profilando e determinando con i nuovi assetti di società del consumo e del consenso amministrati, antiliberale e antidemocratica, i poeti, specie quelli del Gruppo 63, reagivano stravolgendo prevalentemente il linguaggio rendendolo comunicativamente impraticabile o teatro di rivisitazioni retoriche e giochi pirotecnici. Altri tentavano esperienze neoorfiche, neoermetiche, neosimboliche o la via della cosiddetta “parola innamorata” o della “nuova poesia”.

Vedremo però, pure, poeti che praticano una sperimentazione che rifugge dall’evasione e dal disimpegno, e che di fronte alla realtà così avvilente e mortifera reagiscono lavorando sui contenuti senza dissociarli dal nesso ideologia-linguaggio o praticando una scrittura discorsivo-antilirica che privilegia l’approccio allegorico e uno stile prevalentemente ironico e dissacrante.

I poeti della fine degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e Novanta, che producono però poesia complessivamente sganciata dal rapporto con la vita reale e materiale, e che si abbandonano alla dimensione “ingenua e sentimentale” del vivere, dell’essere e ad una scrittura lirico-narrativa che ricicla ermetismo e simbolismo e le stesse forme metriche classiche, sono quelli che poi inducono ai ritorni metafisici, ai desideri e alle pulsioni della sfera emozionale o dell’immaginario primordiale, alle voci e ai “dialetti” particolari del sé psicoanalitico. “Per migliorare il metodo dell’espressione il poeta (quello degli Anni Ottanta) riproduce istanze antiche e referenziali: il minimo verso, la metrica assoluta, la ripartizione per strofe, l’ineffabile illimitato, la lingua dello , l’ottocentesca intenzionalità, la confessione sull’idillio, la posizione consolativa, i termini del rifugio crepuscolare, l’asociale e l’altro modello dell’elegiaco, irretito nell’irreale, da cui la sua sensibilità proviene in più alte alterazioni (…). Coltivato il calcolo del verso innocente e ingenuo, la parola resta così inefficace, è apparenza esterna e inspiegabile, tornata alla monoloquialità pura, senza discontinuità e labirinti, senza fulgore ed elementi multiformi. Il tracciato è divenuto anonimo paradigma, riassuntivo diario di accadimento esterno, accenno del vissuto elegiaco; perde la possibilità di interrogare la vita, la malattia di essa (…). In molti si sono liberati delle scritture visive e non ne considerano le possibilità della sua storia, perché l’ambiente è diventato pigro e triste, e conta in esso colui che riordina la mitezza, le voci correnti, senza provocazione e senza dissidio (…). Non c’è più incandescenza (…)”(46). Questi poeti, però, poi, sono quelli che poco aiutano a stabilire rapporti di negazione e antagonismo nel momento in cui ce n’è bisogno. Anzi tendono alla restaurazione, dice Stefano Lanuzza che, sulla rivista Il Ponte (novembre 1997), analizza e critica il volume Poeti italiani del secondo Novecento. 1945-1995 di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi (Mondadori, Milano 1996). La critica di Lanuzza investe soprattutto l’esistenza di un presunto monolitico, unitario “canone” lirico-narrativo che avrebbe guidato i curatori nell’antologizzare i poeti appartenenti ad esperienze diverse. “ Una messa in crisi della nozione di canone dominante, ossia del <polo monostilistico> – l’inclinazione lirico-narrativa (corsivo nostro) – (…) è designata dalla presenza, nella stessa antologia mondadoriana, di autori che – a dimostrazione che non sempre la poesia è ascrivibile ad apparenze fisse od obiettive, ma si disloca nell’<emanazione fantasmatica di una soggettività onnivora> – coniugano in modi a volte stagnanti (emanerà da ciò l’impressione di un generale <monolitismo>?) orfismo ed ermetismo, psicoanalisi e filosofia, gnomica e saggistica, lirica ed elegia, misticismo e mitografia; con (…) massicce restaurazioni metriche e ritmiche in forma chiusa”(47).

In quest’arco di tempo, fortunatamente non omogeneo, verso la fine degli anni Ottanta, altri poeti – utilizzando una scrittura intrecciata di serialità, codici, sottocodici, altri artifici retorici e l’allegoria come polemos e demistificazione – rispondevano con chiare scelte antagoniste contro l’ordine disorientante e mistificante dei fatti della società borghese che, sul piano letterario e poetico, negli stessi anni, coltivava il  simbolismo come luogo dell’espressione soggettivo-psicologica e topos di un ritorno all’universalità pacificata e/o pacificante. La stessa ideologia borghese, ormai, di fatto, schizofrenica, non più uniforme e compatta, sebbene la divisione tra la cultura materiale e ideale e il conflitto d’interessi fossero ancora riconoscibili e riprospettati, trova però una linea poetica oppositiva che focalizzava gli eventi e i frammenti della mostruosa quotidianità storica secondo i termini di un rapporto altrimenti e rovesciato. Il rapporto è, infatti, una relazione dialettica antagonista e sempre in fieri che riorganizza la congiunzione e la separazione secondo la visione dell’allegoria di W. Benjamin -“ Le allegorie sono, nel regno del pensiero, quello che le rovine sono nel regno delle cose.”- e la “separata congiunzione e congiunta separazione” degli eventi che si fanno tessuto nella strutturazione linguistica. I frammenti – i pezzi del mondo borghese che sfuggono agli impotenti tentativi di ricompattare unitariamente le contraddizioni della contraddizione fondante (ma negata e imposta come naturale) – la frattura tra fatti e valori, teoria e prassi politica – , infatti, pur rimanendo separati (l’unità metafisica ormai ha perso la sua capacità di coesione e credenza, è vuota e astratta), sono intellettualmente tagliati/miscelati altrimenti dall’allegoria e dagli altri strumenti logico-linguistici della retorica. L’allegoria, infatti, riorganizza, secondo uno schema (quasi trascendentale kantiano) altro di significazione, gli stessi eventi-testi miscelati, concreti e contingenti, dopo averli trasformati in simboli-segni-significanti destrutturati e averli ricomposti con logiche che accettano i paradossi e le contraddizioni come luoghi di ulteriori processi e pratiche di significazione e senso sociali. L’allegoria, altresì, non è sola in questo processo teso a far emergere la plurivocità, la polisemia, la demistificazione e una nuova riproposizione di lettura del mondo e dei suoi accadimenti; è come se ci fosse anche un pensiero critico continuamente in azione e antagonista. La destrutturazione della langue, praticata attraverso la costruzione di testi che ne ridistribuiscono gli elementi – la parole, la sintassi, la semantica, ecc. – è infatti spia e segno di un pensiero e di una volontà che leggono il mondo e le sue dinamiche praticandovi un’azione di cambiamento simulata retoricamente. Senza rinunciare alla possibilità, seppure zigzagata, di poter cambiare lo stato di cose presente, denuncia l’apparente bellezza del mondo e della storia e ne mette in luce anche l’esistente mostruosità, per esempio, indicando e giudicando le guerre di potere, di classe e di etnie o le violenze di sopraffazione di varia natura che negano le differenze, impongono e amministrano l’identità e l’uniformità.

L’allegoria, infatti, unitamente alle paradossalità logiche e alla messa in scena dell’ironia provocata, per esempio, dalla levis immutatio che deforma linguaggio e logica, fa esplodere il “simbolismo” e slega i frammenti dei termini del textum allorquando questi sono pensati come riuniti in un’unità pacificata o in un intreccio relazionale rettilineo, cristallizzato e naturalizzato. E ciò sia che riguardi il tessuto della vita sia quello della società storica, elevandolo a valore di verità universale e necessario. “Nell’allegoria, per contro, il frammento resta tale, permane nella sua separatezza. L’allegoria è al di là del bello. (…). Uno strano rapporto ch’è di separazione e non meno di congiunzione; meglio: ch’è di separata congiunzione, di congiunta separazione. (…). È necessario dunque pensare l’identità e la differenza, la differenza e l’identità, ma non risolvendo l’una nell’altra, l’altra nell’una, anzi mantenendo la loro opposizione, la loro contra-dizione  ¾ irresolubile. È necessario mantenere la menzogna della copula, e non mantenerla (…) è la necessità del nostro quotidiano: sempre che parliamo, diciamo la contra-dizione (…)”[48]. L’allegoria ha dunque una sua rete di relazioni che trova il suo essere proprio nell’intreccio che continua a riconoscersi come un rapporto di molteplicità-unità, che si evidenzia non risolto nelle contraddizioni viventi, negli eventi e nei frammenti che, in ogni modo, cerca di ricostruire nel loro assunto di verità, rapportandoli ad altri eventi strutturati e complessi (anche diagonali), che fanno il tessuto della storia e della sua materialità temporale.

Questo tessuto/miscela, metonimicamente, si presenta nella poesia controcorrente di oggi (in Sicilia o altrove) che frammenta, destruttura e reimpasta tutti i livelli del linguaggio per aggredirne l’ordine di verità imposto e costringere gli altri a pensieri di riflessione e d’interpretazione comunicativo-politica e a esprimere giudizi di valore criticamente distaccati.

Ai messaggi della nuova restaurazione, richiedente consenso e integrazione acritici (un’arroganza che avanzava con il silenzio che montava intorno alla criminalizzazione della contestazione del ’68 e la riuscita razionalizzazione reazionaria e conservatrice seguita agli anni di piombo, e allo smantellamento dei blocchi con la caduta dei regimi del cosiddetto socialismo reale), questi poeti, vecchi e nuovi, settentrionali e meridionali, rispondevano con una poesia antisistema, antirestaurazione e antilirico-sentimentale. Utilizzavano la scrittura allegorica in senso antisoggettivo, parodistico e polemico nei confronti di una realtà frammentata che avanzaVA pretese di ordine, verità, universalità e unitarietà. Sul piano della poetica e della produzione artistica erano dichiaratamente critici e avversari dei vari neoritorni e delle nuove tendenze della poesia innamorata. Queste direttrici, infatti, sul piano artistico si rendevano complici dell’ideologia della restaurazione che contava molto sulla fasulla propaganda di morte delle stesse ideologie, e questi autori se ne discostavano con avveduta consapevolezza. Erano quelli che sotto la cura introduttiva e saggistica di Franco Cavallo, Mario Lunetta, Romano Luperini, Francesco Muzzioli, Walter Pedullà e Filippo Bettini, si riconoscevano nella linea della Poesia italiana della contraddizione (49). Questi poeti, molto diversi fra di loro e provenienti anche dall’esperienza della vecchia avanguardia formalista, come lo stesso Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani (dell’ex Gruppo 63), sono Gianni Toti, Mario Lunetta, Gianfranco Ciabatti, il siciliano Edoardo Cacciatore, e i meridionali Franco Cavallo, Biagio Cepollaro, Francesco Leonetti e altri. Questi poeti reagivano creando una poesia di pensiero con radici nelle contraddizioni materiali e negli eventi paradossali della società; mostravano le brutte verità e i falsi progressi nascosti nell’appariscente luccichio degli spettacoli. Il dissenso e la posizione politica si concretavano in testi che traducevano le contraddizioni in contra-dizione o in un dire-scrivere-narrare che ironizzava e dissacrava ciò che voleva apparire razionale o dato, quotidiano o meno che fosse il modus di vivere e di essere.

“Esiste, dai primi anni Ottanta una compagine di critici, teorici e produttori letterari che si raccoglie attorno a un’ipotesi strategica che ha nome di (…) e viaggia sotto il segno irriducibile della tendenza e del progetto (…) che si propaga nel rilancio di una prospettiva contro la pratica secolare del (…) – con – Edoardo Cacciatore e Edoardo Sanguineti (…) diversissimi tra loro (…) Entro la distanza che dirime parodia e teoresi, regime del grottesco e livello dianoetico, il punto d’incontro s’affoca nell’indotto delle relazioni oggettive: comune è la matrice della ricerca in versi, l’intellettualità incoercibile dei suoi poetici e discorsivi, in aderenza forte, e vieppiù cogente (ai fatti dell’oggi); comune, dirimpetto, la rifondazione di una lingua poetico-narrativa, svincolata dalle catene analogiche della evocatività dell’ e tutt’affatto protesa alla moltiplicazione dei soggetti, alla contaminazione dei , all’estraniamento del verbo”(50). Di Edoardo Sanguineti, si riportano i versi di Ballata della guerra – per Gian Carlo Binelli -:

dove stanno i vichinghi e gli aztechi, / e gli uomini e le donne di Cro-Magnon? / dove stanno le vecchie e nuove Atlantici / la Grande Porta e l’Invincibile Armata /… / tutto è finito, lì a pezzi e a bocconi, / dentro le molli mascelle del tempo: / qui, se a una cosa non ci pensa una guerra, / un’altra guerra ci ha lì pronto il rimedio: /…/ oh, dove siete, guerre di porci e di rose, / guerre di secessione e successione? / oh, dove siete, guerre sante e fredde, / guerre di trenta, guerre di cento anni, / di sei giorni e di sette settimane, / voi, grandi guerre lampo senza fine? / finite siete, lì a pezzi a bocconi, / dentro il niente del niente di ogni niente: / qui, se a una guerra non ci pensa una pace, / un’altra pace ci ha lì pronta la guerra: /   principi, presidenti, eminenti militesenti potenti, / erigenti esigenti monumenti indecenti, / guerra alle guerre è una guerra da andare, / lotta di classe è la guerra da fare: /”(51).

Di Edoardo Cacciatore, si riporta la poesia Il Progresso:

IL PROGRESSO [52]

Non ch’io sia retroverso

Se ti rimetto il progresso

Amici tutto è in preda all’alterazione

Siamo già in onda siamo già in trasmissione

Ma benché tutto è diverso

L’essenziale è poi lo stesso

.

È continuato l’ingresso

Eguali copie e modelli

Il passato si diverte

Sono balconi gli avelli

Non c’è stand che sia inerte

Ermete ogni commesso


La contraddittorietà e la paradossalità volevano sottolineare sia la rivolta contro il governo del consenso culturale sia la ripresa di una storia come processo, molteplicità e textum d’eventi contingenti, aleatori, aperti, e terreno della nuova dialettica del possibile e della nuova razionalità che si accompagnava con la relatività, la critica e l’ironia per rivedere fondamenti, certezze-incertezze e linearità di percorsi progettuali di sviluppo. Non c’è più, infatti, e nessuno ci crede più, un piano di totale riscatto e salvezza finale. C’è una progettualità utopica problematica e temporale, incerta, materialmente precaria, probabile-improbabile che gioca ai margini delle opposizioni e fra i bordi e le soglie di ciò che permanentemente è ritmo e aritmia, misura e dismisura.

La soggettività sia d’ogni singolo sia del/i Soggetto/i storico/i, se è ancora possibile parlare in questi termini, ormai è scissa dall’unità, dall’universalità e dalla totalità della vecchia filosofia; è immersa invece nella temporalità come miscela fluida, permanenza contraddittoria di variabili, naturali e/o storico-culturali che siano (che solo astrattamente sono separabili e dominabili). Il suo cammino, sviluppo processuale complesso e non lineare, immerso nel reale materiale e storico contraddittorio, trova allora un’espressione più adeguata, ma soprattutto più vigile e critica, se fa ricorso anche a un’indagine allegorica. Questa, infatti, lo vede totalmente immerso nel mondo concreto della storia e oggettivamente  intrecciato con logiche che non sono solo psicologiche, antropocentriche e logocentriche, ma ideologiche e di interessi in conflitto che uniscono quanto separano gli stessi uomini che vi interagiscono  in termini dialettici.

I poeti della “nuova poesia“, invece, con l’io disperso, si muovono ancora tra sperimentalismo anni ’60 e recupero delle vecchie forme liriche premoderne e moderne. I loro testi, tutti accomunati dalla molteplicità e dalla frantumazione dei codici, degli stili e degli enunciati, “sono le maschere, perforate e lacerate spesso, del corpo e delle sue vicissitudini e, in particolar modo, del sogno”(53) che cercano al di là della ragione forte, maturata dalla cultura occidentale, il ritmo sonoro di un’unità primordiale e primigenia della vita e quindi della verità. L’io del poeta Giuseppe Conte, per esempio, in questo sogno di ri-fusione, come fa notare Enrico Testa, nel suo saggio critico – Il codice imperfetto – è un Narciso della continua metamorfosi, “un io in continuo mutamento, che felicemente si perde e che angosciosamente si ritrova (…) <io estasi, io sguardo, io / futuro (…) io / non più io (…) Io oggi, io fiore, io / pietra, io buio, io luce (…) “(54).

L’archetipo della caduta o dell’espulsione dall’unità originaria dell’essere e la fusione panica, perseguita nell’accezione della metafora moderna dell’identità immediata, sono, poi, alcuni topoi retorici tipici utilizzati dai poeti della “nuova poesia” per dire-narrare la dis-seminazione del soggetto postmoderno.

Altrove si puntava ad accentuare, in ogni modo, la rottura della comunicabilità consolidata e immediata, mettendo in crisi il codice del sistema accreditato del messaggio, smantellando le consuetudini linguistiche del senso comune, recuperando il nesso linguaggio-ideologia e creando un “gergo” controcorrente che fosse stimolo per il pensiero, la conoscenza e il giudizio. Sono alcuni dei termini in cui si pone, secondo Mario Lunetta, la questione della poesia e che il critico affronta in Et dona ferentes. Sindromi del moderno nella poesia italiana da Leopardi a Pagliarani (Edizioni del Girasole, Ravenna 1996). “Perché un primario impegno della poesia è <derealizzare le consuetudini> del senso comune: a costo di rendersi <intrattabile> e mancare di <buona educazione>. Espressa nella pratica della diffidenza, essa s’oppone allo stato di cose superandolo con l’invenzione di un nuovo linguaggio; di un <lessico> che non sia commento della realtà, ma – precisa Lunetta – <giudizio sul mondo e ricreazione del mondo>. Per questo la prassi poetica, armonizzata con una teoria della lingua che assume il significato come essenziale, non può dimenticare i nessi, pur contraddittori, di reciprocità tra linguaggio e ideologia (…). Ciò non implica che una ricerca di corrispondenza tra significante e significato possa sottrarsi allo speciale, camaleontico rapporto combinatorio e di non linearità, di moltiplicazione e dinamizzazione che, al contrario della lingua quale sistema classificatorio e ipostatico della realtà, il lessico della poesia istituisce coi propri referenti semantici e simbolici. (…) occorre una scrittura letteraria capace di elaborare un <altro italiano>, una forma di <improgrammabile gergo>: duttile, multidirezionale, difficile per il lettore non meno che per il poeta (…) espandendosi oltre gli steccati fissati dalla norma e producendo nuovo senso. Ciò perché la <cosa> poesia è (…) <Una forma di pensiero in azione>”(55).

Nel 1993, poi, a Reggio Emilia, l’ex Gruppo 63 si presentava come Gruppo 93 in un convegno che aveva per tema “1963-1993: trent’anni di ricerca letteraria“. In questo convegno, poeti come Biagio Cepollaro, già presente nella linea della poesia materialistica e allegorica della Poesia italiana della contraddizione, ora come allora, si pongono in termini di dissenso nei confronti della società borghese-capitalistica che nel frattempo è diventata mediatico-dematerializzata (società e realtà della conoscenza, dell’informazione, del virtuale e simulato) e “talk show”: estetizzazione e depoliticizzazione assoluta. Era chiaro dunque, diceva Cepollaro in un suo intervento, “che nel nuovo paesaggio dell’estetizzazione diffusa e della contaminazione de facto dei linguaggi, non era sufficiente agire nell’ambito dei problemi che avevano caratterizzato la pur rigorosa e feconda ricerca degli anni Sessanta e Settanta: il riassorbimento in maniera o l’utilizzazione pubblicitaria delle tecniche un tempo trasgressive richiamantisi all’asintattismo, mi spostavano le questioni dalle forme ai materiali, dalla sincronia alla diacronia, al riconoscimento di una condizione non tanto di frammentazione quanto di implosione e dematerializzazione (…) occorreva pensare un’altra poesia (…) occorreva fare i conti con la tradizione della ricerca poetica e, dopo il tentativo di evasione – che pure conteneva in sé delle istanze circa la Soggettività – di La parola Innamorata, riprendere il discorso laddove la crisi delle ideologie, dello strutturalismo, dell’epistemologia a cavallo fra la fine dei Settanta e gli inizi degli Ottanta, si era interrotto. Non il poeta vate, nessuna traccia degli dei, ma un nuovo coinvolgimento nei linguaggi del mondo e un tentativo di parola responsabile”(56).

Insomma, nella società videotelematica e della realtà virtuale, occorreva una nuova riallegorizzazione degli eventi e una responsabilità della parola poetica che tenesse conto dei nuovi e potenti linguaggi multimediali del montaggio, pericolosamente ipnotizzanti. La nuova coscienza allegorizzante e critica era tanto più opportuna quanto più i nuovi media, sotto forma di slogan e stereotipi, utilizzavano come contatto immediato e acritico il “magico e religioso” rituale dell’iterazione e della ripetizione delle formulette strizzacervelli. La propaganda legata poi alla scenografia spettacolare e al carisma dei personaggi somministrava un’ulteriore dose di sonnifero per ostacolare con maggior presa un’intelligenza ironico-distanziante sugli avvenimenti.

Di fronte alle sconvolgenti manipolazioni della nuova tecnologia, che annulla quasi il confine tra reale e artificiale e la stessa corporeità naturale e storica delle cose, impedendo alla percezione di distanziare tra oggetto e oggetto percepito, dice Biagio Cepollaro, occorre riappropriarsi della realtà.

Ecco perché, allora, nel tempo del talk-show, si sente il bisogno di una parola poetica responsabile che riprenda i contatti con i problemi reali e vi si rapporti con il dovuto impegno etico-artistico; un impegno anche nel senso materiale di restituire al mondo la propria identità di corpo concreto, non ridotto solo ad energia codificata in vibrazioni bit o a simulazione e montaggio, dietro cui, poi, come dice lo stesso Cepollaro, in termini più radicali e totalizzanti che nel passato, si coltiva l’alienante e mistificante estetizzazione della politica: “Ciò che si richiede, con l’uscita dal manierismo, comprensibile all’interno dell’estetizzazione diffusa ma inadeguato all’estetizzazione della politica, è un’arte della composizione che sappia articolare il senso del lontano e del vicino, del rassicurante e dell’orrore, del cosmico e del quotidiano, quelle dimensioni che l’estetizzazione della politica tende ad appiattire in una simulazione di immagine totale. Ecco perché una letteratura che simuli l’esistenza di una dialettica tra norma e trasgressione (interna al codice metrico o comunque interna alla letteratura) duplica quella industrializzazione della percezione piuttosto che sortire, nei modi possibili dentro il <paesaggio> dell’estetizzazione della politica, effetti di verità, a dispetto della desertificazione narrativa del mondo. La perdita di centralità dell’Estetica, connessa all’estetizzazione della politica, richiede un impegno intellettuale non solo rivolto allo spessore storico delle forme estetiche ma sempre più allo spessore antropologico di esse, al senso originariamente politico che lega la letteratura da una parte al patrimonio culturale e dall’altra all’individuazione della <barbarie> occultata dalla tecnologia della simulazione. Queste potrebbero essere le caratteristiche di un realismo mediatico, un realismo che ha assunto come dati di partenza l’inserimento della letteratura all’interno della catena multimediale e la difficoltà nuova che con ciò si presenta. Il fatto che l’estetizzazione della politica faccia della narrazione mediale un suo punto di forza costituisce una sfida alla letteratura sul suo terreno specifico. Occorre raccogliere la sfida”(57).

Fuori della Sicilia e del Sud, le posizioni erano e sono dunque molto differenziate, e la stessa avanguardia ha una fisionomia mobile, sebbene tutti i suoi componenti condividessero dissenso e critica nei confronti della società borghese-capitalistica e della sua apparente capacità di produrre benessere diffuso e/o di assicurare uno stato di pace duratura fra gli uomini, gli stati e i popoli.

Questo comune dissenso critico, inoltre, oggi riceve un’ulteriore conferma da un’altra delle contraddizioni materiali laceranti di questo secolo che sta per finire, la globalizzazione. La globalizzazione, infatti, unifica il mercato e i consumi mentre allontana e divide ulteriormente i soggetti di uno stesso territorio e i popoli fra loro. Questi, infatti, scatenando anche conflittualità armate cercano di difendere la propria differenza e di riappropriarsi della propria identità minacciata dai flussi del potere e del dominio. La globalizzazione ha accentuato le lotte regionalistiche e fatto scoppiare pure le guerre delle nazionalità, un conflitto che ormai sembrava chiuso da tempo. Le diversità non riescono più a convivere e a coesistere: in un momento in cui la transizione ha fatto perdere i vecchi schemi di riconoscimento mentre i nuovi non si vedono neanche, ciò che vige è l’aggressione, la violenza e la guerra, la riscoperta dei vecchi ferri delle superiorità razziali e civili di cui l’occidente capitalistico si è sempre servito per dominare.

Di quest’impegno, manifestato attraverso la poesia, per esempio, negli anni Ottanta, sono testimonianza le antologie di poeti per la pace. È il caso dei poeti, anche più noti ed affermati, che, fuori della Sicilia, si raccolsero nell’antologia del 1985 Segni di Poesia/Lingua di Pace (58). L’iniziativa di questi poeti è, però, posteriore a Poeti per la pace, l’antologia dei poeti dell’Antigruppo, nata in Sicilia nel 1982 a cura di Rolando Certa, Edizioni Impegno 80, e nell’ambito del II Incontro fra i Popoli del Mediterraneo.

Questa antologia fra l’altro raccoglie anche la poesia – OH, QUANTE ANGOSCE, CHE RIMORSO…- di Rafael Alberti, presente a quel convegno.

Alcuni dei poeti raccolti in Segni di Poesia/Lingua di Pace, poi, nel 1989, si troveranno anche nell’antologia Poesia italiana della contraddizione (59), antologia che testimonierà dell’impegno etico-artistico attraverso il disincanto del distacco critico ironico che si coglie sia nelle scelte dei temi sia nelle scelte linguistiche.

Quest’ultima antologia, secondo il mio parere, come la prima, segna un’importante svolta. I poeti qui riuniti, infatti, sono quegli stessi autori che in precedenti prove si erano adoperati solo in sperimentalismi formali e che ora invece sentono la responsabilità della parola poetica. Questa volta, accompagnandosi ad un’esplicita dichiarazione di tendenza e progetto, i loro testi sono nettamente marcati dall’allegoria critico-raziocinante e materiale che si nutre dello “sperimentale” storico-materiale dei problemi concreti. La proposizione di una poetica ironica e dissacrante riprende, infatti, un discorso di tendenza e d’impegno lì dove regnava il disimpegno. La poesia di questi autori, pur convinti che la razionalità “forte ormai abbia perso mordente, si immerge di nuovo nella storia materiale degli uomini e delle verità parziali e ulteriori, nei processi della produzione di senso e nelle tematiche socio-politiche. Senso e significati, fra l’altro, sono mediati attraverso una struttura linguistica, sintattica e logica straniata che riprende forme del parlato dialettizzato, del gergo, dell’oralità più diffusa e dei registri linguistici più disparati. Sebbene precaria e contingente, perché consapevole della complessità delle relazioni, della relatività delle cose e delle azioni possibili, questa nuova razionalità, insieme con la contaminazione dei generi, l’articolazione e l’interdisciplinarità dei codici e uno stile espressivo non massificabile, però si sottrae – e questo è significativo – al coro quasi unanime della morte delle ideologie. Conserva il suo potere di critica controcorrente e punta a denunziare la responsabilità e l’inconsistenza equivoca della deideologizzazione quanto della derealizzazione totale; infatti, quando, si dichiarano morte le ideologie, c’è sempre imperante quella dell’ordine dei fatti esistenti e della sua incondizionata accettazione.

In Sicilia, i poeti dell’Antigruppo non hanno mai avuto contatti diretti con i poeti della linea della contraddizione/contra-dizione, tuttavia c’era chi, in provincia di Trapani, ne condivideva le grandi scelte di dissenso di fondo che sostenevano e sostengono la loro scrittura poetica. Diversi erano gli autori, più o meno noti, infatti, che ne seguivano a distanza gli aggiornamenti, le pubblicazioni, i convegni e gli atti, e anche il dibattito che si svolgeva sulle riviste letterarie e filosofiche. E ciò anche quando, verso la fine degli stessi anni Ottanta, l’Antigruppo, dopo la morte del poeta Rolando Certa e la liquidazione della rivista Impegno 80, non esisteva più.

Anche da noi, pur nell’innegabile presenza del postmoderno, della crisi della progettualità utopico-materialistica, dello scompaginamento di classe e della crisi del soggetto della storia e delle alleanze di classe, delle ideologie forti e delle totalità metafisiche o dialettiche chiuse, si crede che il dissenso della poesia possa vivere puntando ancora alla contraddizione e alle contraddizioni del sistema. La vischiosità fagocitante del sistema può essere aggredita percorrendo ancora le vie dell’impegno o lavorando sulla polisemia e l’ambiguità della poesia, e facendo in modo che la sua lingua particolare e le strutture che la connotano non perdano il contatto con la vita e la materia del suo essere.

In Sicilia, crediamo ci sia ancora una ragione della volontà e una volontà della ragione e una dialettica realtà-sogno ancora vivi, in grado di sostenere chi parla-agisce sperando che il mondo possa essere ancora cambiato, pur se complesso e governato da logiche contraddittorie.

Il mondo dei modelli complessi e dei linguaggi, dei metodi e delle interpretazioni, infatti, se ha messo in crisi la razionalità metafisico-teleologica lineare e il suo linguaggio altrettanto lineare e positivistico, ha, infatti, messo in campo anche una razionalità materiale e storico-processuale alternativa, non dogmatica, e capace di demistificare ancora anche il linguaggio della nuova società mediatica dei nostri giorni. Di natura più snella, probabilistica, stocastica, congetturale e critica, la nuova razionalità, nel nostro ambiente, ha così stimolato la responsabilità della parola che conosce e interroga, che descrive e racconta da più punti d’osservazione le varie verità quotidiane radicate nel passato o proiettate nel futuro, ma sempre problematiche, ulteriori. La contingenza di questo accadere non costituisce un limite bensì un modo per vedere come i fatti siano anche portatori di verità conformiste e per contraccolpo quindi grimaldelli antisistema.

Sono le vie della tendenza etico-ideologica ed euristica e della politicità come scrittura materiale che, indicando orizzonti di protesta e di lotta per nuove e non emarginanti condizioni di vita, dissacrano ironicamente l’elducorato senso comune, la presunta realtà pacificata, l’intimismo e la logica dell’emozione e dell’estraniamento del linguaggio come fini a se stessi. Seppur, ormai, conviventi con la riconosciuta processualità degli eventi e del senso, della loro precarietà e incertezza, e del loro livello di simulazione e di derealizzazione, i nuovi percorsi linguistico-poetici siciliani e meridionali, legando emozioni e idee, riflessione, ricerca linguistica e pensiero critico, non perdono i contatti con la realtà, anzi esprimono azioni come bisogno e credenza di ucronotopie ancora possibili. Non vanno alla ricerca di “effetti di verità” o della “realtà perduta”, perché la poesia come negazione non ha mai perso il contatto con il suo negato – il mondo che si vuole cambiare – e perché come poesia, consapevole che il proprio linguaggio sia una simulazione di secondo grado rispetto alla cosiddetta lingua naturale, non ha mai pensato che il mondo poetico possa sostituirsi sic et simpliciter a quello dato.

Che la poesia non abbia mai cambiato il mondo, non è una novità per nessuno; ma che essa sia stata e sia una praxis della lexis che consente a concetti e doxa d’interagire e di far interagire chi usa la parola, orale o scritta che sia, è altrettanto vero e incisivo sul piano del mantenimento della tensione al cambiamento. Concetti, immagini, doxa, rovesciandosi possibilmente in paradossi, sono sempre l’immagine vivente di uomini che interagiscono in una comunità di parlanti e progettanti che con-sentono o dis-sentono; in ogni modo non si abbandonano al clamore assordante del quotidiano.

La storia materiale e ideale infinita, strutturata di precarietà e incertezze, arresti e sviluppi, involuzioni e accelerazioni, ormai è un dato del comune patrimonio genetico culturale, e non scoraggia più nessuno. Non tinge più a fosche e/o nostalgiche note la vita di chi è stato fatto vivere, come il popolo siciliano, nel sottosviluppo e nell’emarginazione, utilizzando il potere della mafia e della gestione clientelare del governo nazionale e locale. La connivenza politico-mafiosa ha ostacolato e allontanato i giorni della liberazione e della libertà autenticamente democratici. Non ha di certo arrestato il processo né di coscientizzazione né quello della possibile azione liberatrice.

È la poesia dell’ironia, in lingua siciliana o italiana, entro le forme classiche dell’istituzione poetica o in forme dissonanti; è la poesia dell’interrogazione allegorica e del realismo prismatico che non sottostanno più a un’unica e dittatoriale visione della vita, tanto più se questa è quella propagandata dal potere ufficiale e dai suoi portavoce.

L’hybris della poesia, in ogni modo, è la forza della trasformazione e della metamorfosi, della ribellione e dell’interrogazione ironica, a volte satirica e dissacrante, con cui la praxis po(i)etica degli scrittori e degli scienziati scatena le contraddizioni delle contraddizioni e degli assurdi che appartengono più alla storia delle “naturalizzazioni” forzate e ideologiche, alla civiltà e alla cultura, che agli stessi processi della vita e dei saperi.

“Lasciata libera di frammentare le cose e di aggredire la loro adaequatio identificante e edificante alle idee, l’hybris dei testi di poesia come pratica di comunicazione trasformazionale e “politica” – denuncia e rottura dell’ordine esistente delle cose perseguite con la non-linearità del verso – rimane, forse, l’unica via praticabile perché la storia materiale concreta, eterologica, degli uomini e delle cose continui ad esprimere la propria carica creativa e rivoluzionaria, recuperando la sperimentalità dei soggetti da un lato e la materialità dialettica dei loro rapporti sociali contraddittori dall’altra”(60).

L’hybris peraltro, nella sua memoria semantica, porta anche il significato di “tentazione politica”(61) o di tensione atta a rompere i limiti da parte degli uomini che interagiscono con la parola e l’azione nella comunità che, in un modo o nell’altro, per rendere vivibile e praticabile la convivenza, deve strutturarsi con norme, limiti e divieti. E la rottura non è fine a se stessa bensì volta a coniugare lo sviluppo con il progresso, sebbene la contemporaneità abbia messo sotto inchiesta la possibilità dello stesso progresso, soprattutto, nel suo modello lineare di finalità intrinseca e teleologica e l’abbia assunto invece come scelta permanentemente esposta a rischio ed esito, quindi, probabilistico. L’hybris della poesia non è la violenza della tracotanza dei disubbidienti o di una astratta volontà di potenza. C’è, per dirla con Domenico Cara, il piacere della poesia che in questi “angosciosi e provocatori Anni Novanta, tutt’altro che lineari o avvampati di soli sogni – sia pur discontinui – per tutti “rovescia le cose e le dice nella danza del linguaggio che ironicamente si snoda tra “autopsìe, zuccheri, zeli, spore, saponi molli, pro-fumi, aloni, effetti di limo, sali nell’acqua”(62).

È la poesia che guarda ancora al gruppo-antigruppo come soggetto di tendenza, capace di leggere i fini del mercato e di proporre vie alternative; le vie in fieri rivolte alla possibilità di progetti che conservino e realizzino i bisogni della pace e dell’amore, della comprensione e dei sogni della libertà di tutti, all’est come all’ovest, e soprattutto nei vari Sud del mondo. È la poesia di un pensiero e di un linguaggio in azione e in movimento che vuole abolire l’insopportabile stato di cose presente.

“(…) / Diffrazioni inquieti rami luminosi / asintotica quiete genera amori / e disorbita carovane di stagioni / con i desideri nei pugni di preghiera / dove a sella il fuoco è radice / di immaginari quadrati fluente / effiorescenze galassie di giardini / sonda nella memoria degli eventi.  / Diaspora la disperazione per muta / azione spara gli spazi del sogno / con gli antichi albedi delle soglie / ventagli subliminari di balestre / ora che il collasso è d’azzurro nato / tra le cosce del tuo fiume sgolato / dove sposammo erranze di solitudini / e fu sud spiroso la discesa nel mare. / / Navigazione concentrica di soli blitz / bersaglia i silenzi della lontananza / i sudari del mio sud multinazionale / ancorché frontiera dissolvenza il futuro / nella mezzaluna la risacca del cuore / tuffa i mattini del relais quantico / e dai bordi d’ombra del tuo seno lunare / la bocca lascia folle di sentieri luce (…)”(63). (Sud biofiori di Antonino Contiliano).

Tempo di robot questa storia mafiosa / ha perso il colore delle carezze naïf / persino la guerra non ha più volti ombre / war games star trek è il suo nome duro/ si spara soffice simulazione morte soft / si massacra col vento tossico delle nubi. / / (…) / ditemi se c’è ancora un sogno di fuoco sulla terra / dove l’amore danzi con la pace l’utopia rivoltata. // (…)”(64). (Rossi Ragazzi di Antonino Contiliano).

Sul piano del linguaggio, non alieni dalla sperimentazione espressivo-formale della frantumazione della parola, della miscela segnica e dell’alterazione della struttura del verso e della frase, il dissenso e le contraddizioni si manifestano nell’interferenza linguistico-lessicale (la parola e l’espressione italiana sono sicilianizzate e viceversa) o nelle espressioni tipiche indigene che convivono dinamicamente con l’italiano. Altri interventi stilistici, dipendenti dalla visione e dalla poetica di ciascuno autore, e che ser/vivano/vono a demistificare la lingua ufficiale con i suoi significati e valori d’ordine, sono l’uso del plurilinguismo dei termini, l’uso ambiguo dei termini del codice dei saperi scientifici, il contrasto, la dissonanza, l’allusione ironica, il neologismo, l’accumulazione, un andamento strofico trattato come se fosse un collage di frasi-parole-immagini-concetti spezzati ma tuttavia uniti da coerenza interna, come a voler dire che l’eterogeneo si intreccia dialetticamente e si presenta simultaneamente in un processo che coniuga e declina (anche ironicamente) identità e differenza.

(continua)

[leggi la puntata precedente Uno sguardo sulla poesia a Sud e l’”Antigruppo” (2/4): Punti di contatto e riferimenti]

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NOTE

(46) Domenico Cara, Traversata dell’azzardo. L’illusione irrazionale nella poesia italiana degli Anni Ottanta, Forum/Quinta Generazione, Forlì 1990, pp. 6-8.

(47) Stefano Lanuzza, Egemonia non fa rima con poesia, in Il Ponte, (11), 1997, pp. 99-100.

(48) Vincenzo Vitiello, Il linguaggio. Benjamin e Heidegger a confronto, in Au Aut, (273-274), 1996, pp. 106-112.

(49) Franco Cavallo – Mario Lunetta (a cura di), Poesia italiana della contraddizione, Newton Compton, Roma 1989.

(50) Filippo Bettini, Tendenza e progetto, in Poesia italiana della contraddizione, op. cit., pp. 316-317.

(51) Edoardo Sanguineti, Ballata della guerra, in Poesia italiana della contraddizione, op. cit., p.22.

(52) Edoardo Cacciatore, Il progresso, in Il discorso a meraviglia, Einaudi, Torino 1996, p.134.

(53) Enrico Testa, Il codice imperfetto, in Nuova Corrente, (89), 1982.

(54) Ibidem.

(55) Stefano Lanuzza, Poeti italiani della modernità, in Il Ponte, cit., pp. 94-95.

(56) Biagio Cepollaro, Perché i poeti nel tempo del talk-show, in Allegoria, (14), 1993, pp. 152-153.

(57) Biagio Cepollaro, L’estetizzazione della politica come simulato ritorno della narrazione, in Allegoria,(19), 1995, p. 156.

(58) Filippo Bettini (a cura di), Segni di poesia/Lingua di pace, Piero Manni, Lecce 1985.

(59) Franco Cavallo – Mario Lunetta (a cura di), Poesia italiana della contraddizione, op. cit.

(60) Antonino Contiliano, Sulle rovine e le tracce di un sogno ininterrotto, in Spiragli, (3-4), 1997.

(61) Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1997, p. 140.

(62) Domenico Cara, La conservazione dell’oggetto poetico, Laboratorio delle arti, Milano 1993.

(63) Antonino Contiliano, Sud biofiori, in AA. VV., La conservazione dell’oggetto poetico, a cura di Domenico Cara, Laboratorio delle arti, Milano 1993, p. 43.

(64) Id., Rossi Ragazzi, in La conservazione dell’oggetto poetico, op. cit., p. 44.

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* Antonino Contiliano, La soglia dell’esilio, Catania, Prova d’Autore, 2000, pp.131-147

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