Immediatamente mi è venuta in mente una battuta, tipo “ma cosa vuoi che siano un milione di visite, ecc. ecc.” ma, mentre scorrevo i commenti dei frequentatori, sono inciampato nell’annuncio della morte di Gianfranco. Ho cercato subito d’individuare l’autore, sarà uno scherzo, mi son detto, magari uno scherzo arburese, un po’ rude, di quelli che “una brulla ti fazzu, un’ogu t’indi bogu!” (uno scherzo ti faccio, un occhio ti cavo!), … no, non era così, perché Gianfranco era morto. Nel momento in cui io leggevo, era stato anche seppellito.
Tornai al post, alle ultime parole che aveva dispensato ai suoi amici: era contento, anche se non sapeva perché. Non poteva non tornarmi in mente un altro morto, precisamente il protagonista del mio primo romanzo. L’incipit del libro è questo: “Bisaccia era felice. Steso per terra di traverso nel vicolo del Canonico, aveva i piedi a meno di un metro dalla porticina che si era chiusa cigolando. Era felice per le parole che aveva sentito da Gisa, due sere prima: “E lo sai che ho mancato due mesi delle mie cose? E se dovesse nascere un bambino?”. Ah, se gli fosse venuta in mente qualcosa da dire, una parola solamente, per rassicurarla! Che peccato! …”.
Bisaccia, pur con un coltello nel cuore, riusciva ad essere felice in punto di morte per via dell’attesa di un figlio; Gianfranco, con nel cuore qualcosa di meno eclatante ma non per questo meno micidiale, riusciva ad essere felice per il suo blog, una sua creatura molto amata e una ragione di vita.
Lo conobbi poco più di una trentina d’anni fa, quando diresse “Il solco”, il rinato giornale del Partito Sardo d’Azione. Pubblicò un articolo in cui, io e un mio amico, stigmatizzavamo il comportamento del Soprintendente ai Beni Culturali di Cagliari il quale rifiutò di fare un sopraluogo nella chiesetta romanica di san Lussorio, alla periferia di Selargius, perché non aveva i fondi per pagarsi la trasferta che gli competeva per uscire fuori dai confini municipali di Cagliari. Erano gli anni subito dopo la seconda guerra mondiale e il proprietario della tenuta dove ricade la chiesa aveva comunicato di volerla restaurare a sue spese. Il funzionario non si recò per il sopraluogo e il restauro non si fece. Mettemmo in evidenza che la chiesa si trova a 200 metri di distanza dal confine dell’agro di Monserrato, allora frazione di Cagliari. Lo pubblicò in prima pagina, nel taglio basso. Ci incoraggiò moltissimo e ci fece sentire importanti, sia perché lui aveva già la barba e sembrava di molto più grande di noi, sia perché era una firma conosciuta nel giornalismo sardo.
Se oggi andiamo a rivedere gli argomenti del suo blog, ci accorgiamo che la difesa dei beni culturali della Sardegna è stato il suo best seller, insieme alla passione politica, rimasta incastrata in quel “vento sardista” dei primi anni Ottanta che lo ha fatto diventare un sardista senza partito, com’è la maggioranza di chi non ha mai smesso di credere nell’idea di una Sardegna indipendente, o quanto meno molto più autonoma dallo stato centralista, in uno stato federato con l’Italia o qualcosa che comunque metta nelle mani dei sardi le loro stesse sorti.
Per questo non ha mai smesso di cercare nei nuovi movimenti che si richiamano alle vecchie idee del sardismo e dell’indipendentismo l’inizio di un nuovo “vento sardista”, restando purtroppo ogni volta allibito di fronte alla litigiosità dei capi e dei capetti, che hanno sempre di più polverizzato i movimenti, riducendoli a gruppuscoli che mostrano la stessa dinamica descritta da Mario Vargas Llosa nel suo Storia di Mayta, dove un gruppo di rivoluzionari comunisti peruviani di due decine d’individui si separano in due tronconi di 10 e di 11, perché seguaci o meno di Trotskij, e questi ultimi si frammentano ancora in 5 e 6, i quali ultimi fanno la rivoluzione per scoprire di avere fra loro una spia.
Lucido commentatore dell’attualità politica, sia sarda che italiana, ma con l’occhio sempre rivolto all’Europa e al mondo intero, non ha mai risparmiato il suo sarcasmo verso la casta a cui egli stesso ha appartenuto per lungo tempo, che alla fine lo espulse perché non aveva voluto piegare le sue analisi alla convenienza sua o dell’editore, mistificando mai la verità dei fatti con cognizione di causa.
Questo è stato Gianfranco: un uomo onesto in tutti i sensi, ben convinto delle proprie idee e scarsamente conciliante col relativismo imperante. Insomma, un uomo vissuto a testa alta e morto senza chinarla neanche di fronte alla signora che tutti coglierà. Infatti ha scritto che era contento: contento di sé dico io, della famiglia, degli amici.
Io non sono stato molto in confidenza, non mi è mai capitato di pranzare insieme, ci siamo incontrati non spesso, salvo che per email e nel blog, dove ci siamo confrontati tante volte sulle cose che ci hanno diviso.
Ma se lo conosco bene, me lo vedo leggere quanto ho scritto, ridere e fare di no con la testa. Non so cosa non gli torni di quanto ho detto e, purtroppo, non posso ribattere, come ho sempre fatto. Mi accorgo che non solamente io, ma siamo in tanti ad aver perso una sponda preziosa, una pietra di paragone.
Nota redazionale: grazie Franco per questo articolo.
Featured image screenshot dal blog di Gianfranco Pintore.