Uomini di cui nessuno sa

Creato il 27 settembre 2013 da Coloreto @LoretoCo
L’ostracizzato è un uomo solo, spesso per propria scelta; è colui che si emargina da sé, che si fa esule dalla società e dal reale, che disdegna ciò che lo circonda. L’uomo solo è colui che considera unicamente se stesso come pluralità di stati, che non si cura del volgo, inferiore, ma che soffre della propria condizione: un eremita volontario, ma turbato dal proprio allontanamento. È inquieto, quest’uomo, ha una tempesta, lì, dove dovrebbe stare il cuore, nel posto recondito in cui si cela l’anima, ma è anche morto, morto dentro; ha la furia del fuoco e la quiete del ghiaccio, la verve e la serenità del mare. L’Odisseo della vita è tale perché immerso nella ricerca del perché delle cose, perché smaschera la realtà e nella sua solitudine la percepisce per come essa è, e ne è atterrito. E’ senza casa, non ha una meta, ma neanche un posto in cui tornare. “Quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non stimare, a non curare più gli uomini e le cose […] – quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza cuore- allora tu non saprai che fare: sari un viandante senza casa, un uccello senza nido” scriveva Pirandello alla sorella Lina, nel 1886. Conosceva bene quello stato d’animo che oscilla tra attimi di fredda apatia e stati di euforico vitalismo: quell’atteggiamento che ci rende stranieri alla vita, estranei persino a noi stessi, alla ricerca della nostra identità: “Il fu Mattia Pascal” è la prova tangibile ed evidente che la vita non è altro che un’opera teatrale, a cui non possiamo che assistere da spettatori; non ci salviamo dietro la maschera del protagonista, che non sarà mai totalmente nostra. Ma è un altro scrittore a delineare un ritratto dell’auto-ostracizzato, del forestiero della vita. “Un antieroe che vive continuamente in bilico tra la voglia di affermazione, la consapevolezza della propria superiorità nei confronti del volgare mondo esterno e la propria innata incapacità d’azione”: così parlava Roberto Crosio relativamente ai personaggi protagonisti dei romanzi di Italo Svevo (“Una vita”, “Senilità” e “La coscienza di Zeno”), focalizzati sulla figura dell’inetto, l’uomo solo, abbandonato, alla ricerca di una propria coerenza, di una propria identità. Zeno Cosini, il protagonista de “La coscienza di Zeno”, è l’inetto per antonomasia; incapace di realizzarsi su basi personali, trascorre la propria vita alla ricerca dell’altrui approvazione, che gli consenta l’edificazione della propria identità: l’approvazione paterna, prima del padre, Alfio, e in seguito dell’amico e futuro suocero Giovanni Malfenti, che gli consente di identificarsi come “optimum filius”; quella che deriva dal rapporto fin troppo dolce e a volte un po’ finto con la moglie Augusta, che fa di lui il marito esemplare (soprattutto quando viene paragonato al dissoluto cognato Guido); la relazione adulterina con la giovane Carla Gerco, gli permette di affermare la propria virilità e superiorità. Tutti questi elementi fanno di Zeno un viandante della vita, alienato dai procedimenti mentali e sociali della gente, della folla, immerso in una questo interminabile. Tuttavia, se si guarda con occhio attento, si potrà notare come Zeno altro non sia che un uomo comune: non il maschio alfa dominante, il superuomo dannunziano, ma uno della folla, uno “normale”, come tanti altri. Come noi. C’è da domandarsi dunque se “inetto” e “ostracizzato” non siano sinonimi di “uomo”. Perché non sono condizioni a sé stanti, non sono deformazioni del carattere: l’inetto, l’ostracizzato, l’uomo solo ed esule dalla società, fanno parte di noi, sono alcuni di quei frammenti che compongono il nostro io. Così accanto ad un animo assertore di una realtà effimera e di carattere superficiale, si sviluppa una personalità che si nutre di insicurezze più profonde, che si allontana e si eleva in visioni di onnipotenza: le due parti coesistono, si alternano, e si fondono talvolta. Siamo tutti soli, sperduti nell’esistenza, incapaci di determinare la nostra vita, inabili nel realizzare a pieno la nostra identità… ma non siamo forse anche un po’ contenti di lasciarci trasportare dalle correnti?

Emanuele Liotta 


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :