Ritrovano spazio tutto per loro così Al Pacino, Christopher Walken e Alan Arkin dimostrando, a chi aveva dei dubbi, che la classe continua a non essere acqua ma soprattutto che il tempo non toglie la capacità di far brillare qualsiasi cosa capiti sotto mano a chi porta questo mestiere nel sangue e ne ha fatto, step by step, motivo di vita.
Perciò "Uomini di Parola" nonostante una trama semplicissima e decisamente non eccelsa per originalità e ritmi, pur trovando appoggio in svariate occasioni in qualche fulmineo e accattivante dialogo, se funziona è prevalentemente per via delle colonne impolverate ma ancora resistentissime che sono li a sostenerlo e a prenderlo per mano, in alcuni momenti trainandolo anche assai meglio del previsto. Parte in sordina Stevens proponendo un Al Pacino sofferente e spossato dai ventotto anni di carcere scontati a fatica e a bocca chiusa, e un malconcio Christopher Walken vittima di una vita che gli ha riservato più delusioni che gioie, l'ultima quella il dover uccidere per un lontano regolamento di conti il suo migliore amico appena tornato a piede libero. Eppure, quando l’unione si ricompone e la ruggine accumulata è scrollata di dosso, la musica riprende a suonare come ai vecchi tempi, concedendosi il lusso di fare scintille se al duetto va ad aggiungersi - anche se per un limitato lasso – l’apporto di un Alan Arkin spumeggiante e divertentissimo (e guru del sesso, pare).
Animali da palcoscenico indomabili a dispetto di acciacchi e stanchezza: descrizione che autorizza il regista a non indugiare sul regolamento di conti finale e a chiudere, proprio nel mentre, uno scontro a fuoco in cui i vincitori sono e saranno più che mai scontati.
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