A 35 anni di distanza, la ferita della strage di Ustica continua a non rimarginarsi. E nella ricerca della verità, tra migliaia di documenti più o meno attendibili, restano solo le tracce storiche di tanti sciacalli.
E a dar voce a quella ricerca continua di verità e giustizia ci sono i parenti delle vittime e la loro associazione, che si batte instancabilmente da quel 27 giugno del 1980. E continua a fare i conti con carte mancanti e richieste di desecretazione rimaste sempre inattese.
“Dalla lettura delle carte depositate si riscontra uno stato della archiviazione veramente preoccupante e inaccettabile: si trovano innumerevoli segnalazioni di continui smarrimenti nel passaggio tra ufficio e ufficio vi sono i segni di una difficoltà di conservazione e trasmissione tra gli stessi uffici, notizie di carte smarrite, di carte trasmesse e non più ritornate, documenti passati a uffici che non sono più individuabili, documenti riordinati e trasportati a vaghe destinazioni” ha dichiarato recentemente Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione parenti delle vittime di Ustica. “E’ urgente censire le carte giudiziarie in relazione ai terrorismi, e digitalizzarle in modo da renderle fruibili, oltre che per salvaguardarle. (…) Le associazioni dei familiari delle vittime chiedono il riconoscimento di un ruolo centrale e propositivo nella discussione sulle varie problematiche connesse alla direttiva”.
Un articolo di qualche anno fa, ma purtroppo sempre attuale. Una realtà da non dimenticare, e un’altra storia da (ri)leggere…
Forse, se si sentisse parlare di un’isola che è stata riconosciuta prima Riserva Marina di 16mila ettari e nella cui terra vulcanica germoglia una rara specie di lenticchie, in pochi vi riconoscerebbero Ustica.
Da Isola delle Ossa, quelle dei naviganti ammaliati dal canto delle sirene e custodite tra le grotte sottomarine, a isola della strage aerea che ha coperto sotto un lenzuolo di amnesie e depistaggi la verità, quella dovuta quantomeno alle 81 vittime che il 27 giugno 1980 viaggiavano sul DC9 dell’Itavia.
Una tragica notorietà che in oltre trent’anni ha salvaguardato il monopolio, industriale e politico, di tanti personaggi più o meno coinvolti e, nella giungla dei poteri, ha fatto saltare Generali dell’Aeronautica e costretto alla chiusura una compagnia aerea. Proprio l’Itavia, naturalmente. Una compagnia aerea, costituita con un capitale sociale di 40milioni delle vecchie lire, che andò ritagliandosi spazi sempre più ingombranti nei cieli italiani.
Infatti, quando ancora il processo veniva condotto dalla stampa e dalla televisione, fu facile per l’allora forte e potente compagnia di bandiera Alitalia ottenere l’appoggio dei media e fare una campagna di demolizione della scomoda avversaria. Neanche un mese dopo la strage infatti, nel luglio del 1980, e ben sei anni prima che venisse ripescato il relitto, un’inchiesta dettagliata sulle “carrette del cielo” come venivano definiti gli aerei in dotazione all’Itavia gettava ombre sulla sicurezza garantita dall’aviazione civile, elencando i “padrini politici democristiani” e le “coperture economiche (…) elargite dai vari istituti” della compagnia aerea privata.
La prima tappa dell’insabbiamento si concluse con un nulla di fatto, e il nome della compagnia venne riabilitato dal silenzio che ne seguì e da timidi tentativi di rettifica.
Ad aprire le porte dei tribunali italiani ci pensò un commento, trasmesso nel 1983 dall’inglese BBC, che parlò per la prima volta di un missile come causa dell’ammaraggio del DC9. Da quel momento dovranno trascorrere altri sette anni prima che quello, che per tutti era ormai noto come “un altro mistero”, acquistasse la dignità di un vero processo. Nel 1990 un cambio della guardia metterà alla conduzione del processo un giudice, già inquirente nell’inchiesta parallela sulla caduta del Mig libico sulla Sila, Rosario Priore. La possibilità che il magistrato romano venisse condizionato dalle altre indagini passò in secondo piano. Prevalse il ritmo con cui i periti si alternavano, da parte della difesa e dell’accusa, nell’analisi di ogni scheggia di fusoliera, ricostruendone il percorso come alla moviola. Dalla ricerca di tracce che allontanassero lo spettro dell’antimilitarismo, temuto dall’Aeronautica militare, e del coinvolgimento di aerei militari stranieri in battaglie aeree sopra le acque del Mar Tirreno, al tentativo di analizzare quel che restava dei segnali radar che quella sera avrebbero registrato la presenza di altri aerei sui cieli del Mediterraneo.
Non reggeva quasi più la tesi del missile (lanciato da un aereo statunitense e diretto sul Mig23 di Gheddafi che si sarebbe fatto scudo del DC9 dell’Itavia volandogli sotto), che ecco arriva la tesi della bomba nascosta nella toilette dell’aereo. Ma su chi l’avrebbe messa, di quale tipo di ordigno si trattasse e della certezza di un suo parziale ritrovamento neanche i periti, fatti giungere da oltre Manica, sono stati mai in grado di dare risposte.
I riscontri, che hanno messo tanti a tacere anche senza avere il volto e i nomi di nessun responsabile, hanno determinato l’unico documento certo di questi 30 anni di inchieste a singhiozzo: la sentenza di “non luogo a procedere perché ignoti gli autori”.
E anche gli interventi recenti del picconatore Cossiga scrivono solo un’altra triste pagina di un romanzo, di cui tanti vorrebbero leggere un finale certo e definitivo. Qualunque esso sia.
Finora il prezzo della verità è stato di miliardi di lire in indagini e di altre centinaia di migliaia di euro, con cui il Ministero dei Trasporti ha riconosciuto un risarcimento ai parenti di quattro vittime. Ma ripagare 81 vite umane ha un costo più difficile da quantificare, quello della giustizia.
da “CCSNews.it” – gennaio 2009