Valentino G. Colapinto intervista FK per Liberidiscrivere.

Creato il 24 dicembre 2010 da Fabry2010

Franz Krauspenhaar (Milano, 1960) ha pubblicato “Avanzi di balera” (Addictions Libri, 2000), “Le cose come stanno” (Baldini Castoldi Dalai, 2003), “Cattivo sangue” (Baldini Castoldi Dalai, 2005), “Era mio padre” (Fazi, 2008), “L’inquieto vivere segreto” (Transeuropa, 2009), “Un viaggio con Francis Bacon” (Zona, 2010). Ha partecipato a numerose antologie di racconti e, per quanto riguarda la poesia, ha pubblicato fra le altre la silloge poetica “Champagne” (Feaci Poesia E-dizioni, 2006), il poemetto “Monoscopio segreto” (Feaci Poesia E-dizioni, 2007) e la silloge “Cocktail K” (Feaci Poesia E-dizioni, 2008). È stato redattore dal dicembre 2004 all’agosto 2008 del blog collettivo “Nazione Indiana”, e ha fondato, assieme a Fabrizio Centofanti, il blog collettivo “La poesia e lo spirito” nel gennaio 2007. Collabora con giornali e riviste scrivendo di letteratura e di costume. È tra i fondatori del nuovo magazine “Torno giovedì”.

La prima domanda è ovvia ma inevitabile: quanto c’è di realmente autobiografico nel tuo romanzo e quanto invece appartiene piuttosto all’autofiction, un genere ultimamente molto di moda?

È un romanzo autobiografico, ma è raccontato come una storia di fantasia. L’autofiction non mi interessa, almeno per ora. In “Era mio padre”, di due anni fa, ho raccontato la verità ma con un tono più lirico e grave. Per raccontare un solo anno della mia vita ho preferito fare qualche disegno a colori sul nero del fondo. D’altronde i grandi dolori non erano ancora arrivati, anche se una noia devastante, dovuta anche ai quei tempi, già m’incappucciava, rapendomi.

Mi ha stupito leggere la descrizione piuttosto negativa che fai dell’anno 1975. Solitamente, siamo abituati a mitizzare gli anni settanta. Proprio nell’edizione appena conclusasi di “Più Libri, Più Liberi”, la Transeuropa promuoveva un suo libro di prossima uscita, “Seventy sex”, con questo strillo: “Mai provato ad avere 15 anni nel ’75, 16 nel ’76 e 17 nel ’77?”

Si sottintendeva, ovviamente, che essere cresciuti in quegli anni significava aver vissuto in un momento magico e irripetibile e, in fondo, moltissimi di noi sono convinti che sia stato davvero così.

Nel tuo libro, invece, scrivi: “Vivevamo in un periodo di merda e lo sapevamo”. Vorresti esplicitare meglio questo giudizio?

Per qualcuno quegli anni sono stati sicuramente meravigliosi: parlo di speculatori, star del rock e del cinema, della televisione, star della politica… io li ho vissuti dall’osservatorio non privilegiato di un ragazzo borghese senza soldi in tasca, abbastanza consapevole, già abbastanza schifato dal male che lo circondava. Penso sia sempre questione di sensibilità e di senso morale. Il fatto che noi compravamo i vinili di gruppi rock passati alla storia proprio nel loro momento di gloria, mentre oggi i ragazzi sono di fronte alla distruzione totale dell’industria discografica e – salvo poche eccezioni – la musica “giovane” di oggi fa schifo, non basta a fare di noi ragazzi di ieri dei privilegiati.

Allora si scriveva a mano o a macchina, si comunicava su telefoni fissi con poche persone, se non si era ricchi non si avevano grandi possibilità di conoscere gente, se non al mare, ad agosto. Io vivevo a scuola, sull’asfalto della strada e a casa. Spesso davanti alla televisione in bianco e nero. Era un periodo di merda, lo ribadisco. Deturpato da ideologie nefande, che avevano già causato negli anni antecedenti disastri inimmaginabili.

O stavi da una parte o stavi dall’altra. E io stavo a destra, quella estrema, soprattutto per reazione. Ero un reazionario, odiavo gli intruppamenti, e perlomeno in questo non sono cambiato. Solo che oggi destra e sinistra sono sostanzialmente dei cartelli indicatori che portano a un unico strapiombo. Soprattutto la destra, è morta da un pezzo. Non ha alcun senso chiamare questi mascalzoni politici di destra. A sinistra le cose vanno un po’ meglio, o meno peggio. Io che ho votato per parecchi anni, fino alla fine, per il MSI, da parecchi anni voto a sinistra. Tappandomi il naso alla maniera del grande Montanelli, l’unico giornalista a cui ho dato retta senza pentirmi.

Alla luce della tua esperienza, la vocazione per la scrittura è più un dono o una condanna? E, potendo rinascere, vorresti diventare ancora uno scrittore?

Potendo rinascere vorrei diventare uno scrittore tedesco o americano. Sicuramente potrei tentare di vivere dei miei libri. Qui sei un paria, uno che non conta un cazzo. È l’argent che fa violenza, come disse Italo Cucci. Sei superato da scribacchini da bestseller e da giornalisti che Bel Ami avrebbe rifiutato alla sua mensa con la pistola in pugno. La vocazione? È un dono. La condanna è nel vivere schiacciati da questo dono. C’è chi ce la fa, per carattere, a scantonare da tale schiacciamento. Non io, non del tutto. Vivo per questo.

Lo status sociale di uno scrittore in Italia è oggi miserrimo, per non parlare del suo reddito. Due anni fa anche tu partecipasti a una discussione sulla necessità che lo Stato finanzi in qualche maniera gli scrittori, come pure accade in forme diverse all’estero. È davvero possibile e utile istituire un salario minimo garantito per gli scrittori? Non rischierebbe di essere gestito con le stesse logiche distorte che vediamo applicate ai finanziamenti pubblici destinati al cinema italiano?

Partì da Vincenzo Ostuni e poi da me, il dibattito. Pubblicai su Nazione Indiana – ne ero ancora redattore -  un pezzo che si chiamava “Siamo i Fangio della cultura che non paga”. Fangio correva nei ’50 su bolidi pericolosissimi. Noi pure – perché la letteratura è una cosa seria e pericolosa – ma certo non avevamo niente di concreto in cambio.

In Italia scrivere è considerato un privilegio, per cui puoi tranquillamente non essere pagato. Gli editori non rischiano nulla. Alcuni fanno “collana” e poi ti mandano affanculo. Se non vendi, loro comunque ci guadagnano lo stesso; risparmiando sull’anticipo, per esempio. Un editore deve investire: per esempio sulle presentazioni. Se tu non mi rimborsi il biglietto del treno, sei un miserabile.

Gli editori li conosco bene: dico spesso che ho avuto più editori che mal di testa. Alcuni sono dei mascalzoni mascherati da uomini di cultura e d’impegno, altri dei duri senza purezza, che cercano il prestigio personale sulle spalle degli autori. I grandi editori ormai puntano al commerciale. Finiti i tempi di Einaudi faro dell’editoria italiana. Sono altri gli editori che lavorano su testi sperimentali, di ricerca.

Poi è chiaro, se hai il santo in paradiso arrivi dove ti pare. E se sei bravo, siamo tutti qui ad applaudire. Se invece sei una chiavica, quella rimani.

Non credo al salario minimo. Per carità. Io non voglio elemosine, ho il mio orgoglio. Semplicemente, vorrei un trattamento economico più equo da parte di tutti: editori, giornali, enti, festival, ecc. Se dai il gettone al grande scrittore americano e non lo dai all’italiano, solo perché non è altrettanto famoso, fai un atto ignobile di berlusconismo. Sei praticamente – spesso – un operatore culturale di sinistra che agisce come un Lele Mora, come un procacciatore di puttane o di froci per Maria de Filippi. A me piace parlar chiaro. Siamo infiacchiti nell’ipocrisia più spinta, nell’ingiustizia più feroce. E nessuno si ribella.

Io nel 2008 ho, diciamo così, evitato di andare a Roma a prendere il premio di Fahrenheit per i dieci migliori libri dell’anno. Non mi pagate l’Eurostar? Me ne sto a casa mia. I finanziamenti porterebbero solo morti e feriti. In questo paese il denaro defluisce, però, sempre verso gli affluenti. No, niente monetine dallo stato, solo equità, anzi onestà, al minimo sindacale. Ma qui è come parlare al muro.

Hai pubblicato 1975 con una casa editrice appena nata e molto coraggiosa. Pensi che gli editori medio-grandi concedano ancora spazio a forme di letteratura poco commerciali? E qual è la tua opinione riguardo agli ebook? Li vedi più come un rischio o un’opportunità per la letteratura di qualità?

I medio grandi danno sempre meno spazio. Ho pubblicato con Baldini & Castoldi e con Fazi, che piccoli di certo non sono. Pochi anni sono passati, ma certe mie cose di oggi (non parlo di “1975”) non le accettano più.

Sono però uno che capisce le esigenze di una grande industria: è ovvio che si deve vendere. Ma fino a pochi anni fa la qualità riusciva a entrarci più facilmente. Oggi ho l’impressione che gli spazi si siano ristretti. Di recente un editore importante, che non nomino, mi ha fatto sapere che il mio ultimo, sofferto romanzo (che uscirà l’anno prossimo con Gaffi) era “troppo sopra le righe e con un senso di morte continuo, pervasivo”. Non era meglio dire: “ Preferiamo parlare d’altro? Il senso di morte non lo vogliamo, perché i nostri meravigliosi “lettori medi” non lo reggono?”

Ma perché, dico io, pensare ai lettori come a un esercito di imbecilli? Perché fa comodo? E poi i soliti noti, i soliti miracolati, i “nati bene”. Io non credo nelle rivoluzioni. Per anni ho ammirato la figura di Robespierre, con vero affetto… Ma poi? La rivoluzione porta sempre a una tremenda controriforma.

No, non c’è niente da fare. Dobbiamo ringraziare quegli editori che ancora ragionano e si applicano sulla qualità, che non si fanno impressionare dall’”overloading” (altra cazzata dettami da un editore per spiegarmi che il mio romanzo era tutto così, per cui non andava bene), perché sanno che i veri grandi spesso in “overloading” mantenevano per centinaia di pagine la loro prosa, vedi Céline. E allora? Allora ci sarebbe da emigrare.

Sugli E-book non ho ancora le idee chiare. Amo l’oggetto libro, la carta. Si vedrà. Anche se così a pelle mi danno parecchio fastidio…

Collabori da anni a diversi blog letterari. Ritieni che abbiano ormai sostituito le vecchie riviste letterarie (che pure sopravvivono e anzi a volte rinascono, come Alfabeta2)?

Sono cose diverse. Il blog si fa e rifà continuamente, non ha “numeri”, e c’è la colonna dei commenti. Sono due cose diverse che possono marciare degnamente insieme. Sono contento che ci siano entrambe.

Cosa ne pensi della mutazione della recensione da pratica in mano a pochi critici più o meno militanti a pratica diffusa, cui potenzialmente può accedere chiunque (vedi Anobii o i feedback di Ibs o Amazon)?

La scomparsa della critica militante da un lato e la diffusione della recensione partecipata dall’altro porteranno a un’omogeneizzazione del gusto e a un suo livellamento verso il basso, maggiore di quello verificatosi con l’avvento della tv generalista?

Beh, quelle non sono recensioni, spesso sono conati di vomito pseudointellettuale, prove enduro di idiozia, cose così. Ogni tanto ci trovi dei giudizi ragionati. Ma insomma, la vera critica letteraria è ben altro.

Quei feedback sono la prova che oggi il lettore ha la possibilità di dire la sua. Ma la democrazia spesso è sporca, e questo fa parte del gioco. Tutti possono dire la loro, e la “loro” può essere spesso una scemenza. Nei blog si ingaggiano battaglie con lettori o con colleghi mascherati con un nick che ti provocano per farti arrabbiare. È bello a volte stare in queste risse e menare fendenti dialettici, e hai l’ennesima conferma di quanto è spesso bassa la natura umana. Questa consapevolezza per uno scrittore serio non basta mai, bisogna sporcarsi le mani e farne memorandum.

D’altra parte chi è il miglior giudice di un libro? Il lettore. Col quale può essere bello, talvolta, scambiare opinioni. A me capita abbastanza spesso, adoro parlare con i lettori, sento di avere fatto qualcosa di buono, c’è uno scambio di affetto, a volte, di vera condivisione. Capisci finalmente di aver scritto qualcosa che ha inciso nella mente e nel cuore di un tuo simile. Hai compiuto un atto d’amore.



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