La trama, molto semplicemente, narra di uno schiavo guercio, tenuto prigioniero nelle Highlands scozzesi da un feroce clan pagano (siamo nell’anno 1000 d.C.), che lo obbliga a combattere per denaro, mettendo così in luce la sua straordinaria abilità e forza. La sua cruenta fuga e il successivo incontro con un gruppo di vichinghi cristiani in partenza per al Terra Santa, sono il preambolo di un macabro viaggio allegorico, al termine del quale il guerriero silenzioso troverà se stesso.
One Eye non dice una parola durante tutto il film (circa 120 le linee di dialogo totali), ma del resto le parole nemmeno servono a descrivere e sviluppare il personaggio interpretato da Mads Mikkelsen. A parlare sono sopratutto gli aspri paesaggi naturali (ottima la fotografia di Morten Søborg), le luci e le ombre catturate dalla macchina da presa (la Red One Camera utilizzata anche in Antichrist di Von Trier), che oggettiva, con stile ieratico e a suo modo monumentale, una parabola fortemente simbolica e densa di significati filosofico-religiosi.
Il film di Refn trasuda una densità tematica vicina, per certi versi, al Tarkovskij di Stalker, a Herzog, a Von Trier, ma non esplicita compiutamente i vari rimandi culturali, religiosi, piscologici che contiene, preferendo lasciare l’atto interpretativo nelle mani dello spettatore, introdotto in un cupo, drammatico viaggio nello spazio interiore, un vero e proprio enigma, da risolvere facendo ricorso, anche con disperata violenza (proprio come One Eye), a tutte le risorse che dispone.
Una storia che fotografa in modo profondo e non scontato l’etica e la visione del mondo pagano-odinista, riuscendo con poco ad arrivare assai lontano, nell’invisibile percorso alchemico esperienziale di autocoscienza, la vera ascesa al Valhalla.