“Valperga”– Mary Shelley VIII

Creato il 02 dicembre 2011 da Marvigar4

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

o

La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 8

Morte dell’Imperatore. Uguccione, tiranno di Pisa, ritorno di Castruccio a Lucca. Eutanasia.

   Lasciata Cremona, Arrigo si gettò all’assedio di Brescia, che rispose con una resistenza minima e nel mese di settembre ottenne soltanto delle condizioni onorevoli. Castruccio era al servizio dell’imperatore durante l’assedio, ma la sua natura fu scossa dalla smania di consenso e crudeltà di questo monarca, che puniva i suoi nemici con le torture più efferate e trattava i suoi amici alla stessa stregua dei nemici. Castruccio quindi decise di separarsi dall’esercito imperiale e, quando Arrigo abbandonò la Lombardia alla volta di Genova, rimase con il suo amico, Galeazzo Visconti.

   Le guerre insignificanti in Lombardia potevano interessare solo chi vi era coinvolto, e tutti gli occhi ora erano puntati sull’imperatore nel suo cammino verso Genova, nei negoziati infruttuosi con Firenze, nello spostamento verso Pisa, nell’arrivo a Roma dove, con il Vaticano nelle mani della fazione avversa, egli fu incoronato in Laterano. In seguito il suo esercito fu decimato dalle malattie e Arrigo, avvilito dagli scarsi progressi della sua armata, tornò in Toscana, attaccò senza successo Firenze e si ritirò nei pressi di Siena, dove morì il 18 agosto 1313, lasciando l’Italia quasi nella stessa identica situazione riguardo il predominio del partito guelfo, ma più accesa e violenta nei suoi sentimenti di parte di quando era venuto due anni prima.

   In questa lunga lotta Firenze fu la testa e il cuore della resistenza contro l’imperatore. L’odio per il potere imperiale e i timori di reintegro dei ghibellini cacciati spinsero i fiorentini ad esercitare tutti gli sforzi possibili nel farsi degli alleati e nella difesa della propria città. La morte di Arrigo fu per loro una vittoria senza spargimento di sangue e una speranza che un rapido cambiamento nelle sorti politiche italiane avrebbe ristabilito l’intero ascendente del partito guelfo.

   Pisa era sempre stata fedele ai ghibellini e amica dell’imperatore, ma con la morte di Arrigo si ritrovò praticamente senza difese alla mercé dei fiorentini, loro nemici, e perciò si avvicinò alle condizioni moderate offerte a loro dal re di Napoli e dalla sua alleata, Firenze, per ristabilire la pace in Toscana. Se questo trattato fosse stato rispettato, le speranze dei ghibellini si sarebbero infrante per sempre e Castruccio non avrebbe fatto ritorno al suo paese. Le scene di sangue e miseria susseguenti ad un conflitto sarebbero state risparmiate a tutti, e Firenze, dall’alto della sua benigna influenza sugli altri stati della Toscana, sarebbe stata la pacificatrice dell’Italia. Gli eventi presero un corso diverso. Per comprendere ciò è necessario fare un passo indietro.

   Subito dopo la morte di Arrigo, i pisani, temendo una rapida incursione dei fiorentini, alla quale non erano pronti, ingaggiarono al loro servizio un condottiero [1], Uguccione della Faggiuola, che con la sua truppa di mille tedeschi si mise a guardia della loro città. La guerra era il mestiere d’Uguccione, perciò egli guardava con sgomento l’ipotesi di una pace a tavolino e decise di romperla. Le masse delle città italiane, schierate in nome dei loro partiti e sempre docili alle parole d’ordine e ai segnali della loro fazione, furono facilmente convinte a passare alla parte avversa. Il popolo pisano era ghibellino e, mentre i più moderati fra loro erano andati avanti nel negoziare la pace, Uguccione fece portare per le strade delle aquile vere, le insegne dei ghibellini, e il grido di ‘Tradimento dei guelfi!’ fu il motto della furia popolare. I magistrati invano cercarono di far valere la propria autorità, ma i loro sostenitori erano dispersi, i loro comandanti fatti prigionieri e condannati a morte, e Uguccione fu eletto condottiero della guerra contro i fiorentini. Questo comandante vivace non perse tempo nelle sue operazioni: marciò contro i lucchesi, alleati di Firenze, devastò la loro terra, li costrinse alla resa e stabilì una pace con loro a condizione che richiamassero gli esuli ghibellini.

   I tre anni in cui questi eventi ebbero luogo Castruccio li passò in Lombardia. Ogni anno fece una campagna di guerra alle dipendenze di uno o un altro dei signori ghibellini di quel territorio, e trascorse l’inverno a Milano. Costruì una sincera e duratura amicizia con Galeazzo Visconti, ma, pur avendo questa amicizia contribuito alla sua promozione, il suo carattere veniva influenzato dai sentimenti congeniali che aveva acquisito dal suo padrone. Mentre cavalcavano, cacciavano, o si battevano insieme, spesso si rendevano a vicenda dei buoni servigi, il loro affetto cresceva, ed era tanto disinteressato e generoso quanto saldo. Galeazzo era sinceramente attaccato a Castruccio e a lui rivelava i più cari segreti del suo animo, però questi segreti erano tali da iniziare Castruccio nell’arte della politica e nei disegni immorali del signore milanese, e a fargli considerare il tradimento e la crudeltà come peccati veniali. Castruccio non risparmiava la passione, la quale, per la sua purezza e natura esaltata, sebbene gli permettesse di perdonare, gli avrebbe evitato di commettere gli errori di Galeazzo. L’ambizione era il sentimento guida della sua anima, ambizione di potere, di conquista e di fama, e non di virtù, e quella fama, come la fenice, non può vivere nello stesso periodo come il suo progenitore, ma risorge dalle sue ceneri assieme alle robuste penne di un essere immortale.

   Era questa disposizione alla bramosia che lo raccomandava con forza a Galeazzo. Castruccio non aveva il desiderio sfrenato per cui non esistevano qualità né capacità da ottenere, la sua era una combinazione di talenti sovrumani, d’energia nell’azione e di limpidezza di giudizio, che oltrepassava di gran lunga quella dei suoi compagni. Castruccio amava il potere, eppure non era né arrogante né dispotico, anzi, lui elargiva dappertutto a volontà parole gentili e sorrisi accattivanti. Sembrava tagliato per ogni scena a cui prendeva parte: in campo di battaglia era energico, valoroso, e pronto all’azione; in assemblea era prudente e cauto come un canuto ministro di stato: nel gioco della palla, o durante una battuta di caccia, si faceva valere per la grazia, l’agilità, lo spirito, e una cortesia la cui dolcezza non era intaccata da vanità o presunzione. La sua bellezza prese una forma più virile: nelle sue labbra rialzate talvolta si scorgeva orgoglio, qualcosa di più dell’autostima, e molta sensibilità; i suoi occhi, neri come l’ala del corvo, erano pieni di fuoco e immaginazione; l’ampia fronte era adombrata dai riccioli di giacinto dei suoi capelli castani. Il suo volto esprimeva una franchezza estrema, una franchezza che non abitava nella sua mente, poiché il suo apprendistato tra gli scaltri capi lombardi gli aveva tolto tutta l’ingenuità d’animo, anche se tracce di ciò che un tempo era in lui non erano svanite dal suo contegno. Castruccio fu sobrio tra il lusso di Lombardia, né spese per ricchezze personali i soldi che erano piuttosto appannaggio dell’equipaggiamento della sua truppa. Alla fine il miglioramento paziente che aveva conferito ai suoi poteri e la perseveranza nell’ordinare i progressi ottennero la ricompensa dovuta, e così tra gli altri esuli lucchesi lui tornò nella sua città natale.

   Però Castruccio non era molto contento di tornare, per così dire, in virtù della tolleranza della parte opposta, al contrario si augurava di elevare la sua fazione a quella supremazia che nel suo dominio lo avrebbe investito del ruolo di capo. Allora egli trattò con l’esercito d’Uguccione, richiedendo assistenza per rovesciare i guelfi di Lucca e affidare a lui l’autorità sulla sua città, mentre in cambio il tiranno di Pisa avrebbe guadagnato un alleato fedele e un passo in più sarebbe stato fatto per la definitiva stabilità dell’ascendente ghibellino.

   Dopo aver messo insieme questo schema, Castruccio e i suoi compagni oltrepassarono la valle del Serchio e, avanzando verso Lucca, assunsero un aspetto guerriero e tentarono di forzare la porta di San Frediano. I guelfi gli si opposero e seguì una battaglia. Uguccione arrivò a tempo debito dall’altra direzione e, non trovando nessuna porta della città incustodita, cominciò a colpire le mura. I guelfi, sconfitti dai ghibellini, non erano in condizione di resistere; i ghibellini, capitanati da Castruccio, considerarono Uguccione come un loro alleato e non pensarono di opporsi alle sue operazioni. I ghibellini erano davvero impegnati al massimo nel contrastare i loro avversari che, sebbene malandati, non cedevano. Fu fatta una breccia, Uguccione entrò trionfalmente e, trattando Lucca come una città conquistata, ordinò il saccheggio da parte delle sue truppe, mentre lui stesso fece incetta del tesoro del papa che era stato conservato nella chiesa di San Frediano, essendo stata scelta Lucca come il più sicuro deposito per un tesoro del genere.

   Uguccione non pensò minimamente alle promesse che aveva fatto a Castruccio, ed entrambe le fazioni si ritrovarono oppresse allo stesso modo da uno che era convinto che la miglior tutela per un governatore era quella di recidere gli alti papaveri nel campo. Solo lo sforzo tempestivo di Castruccio salvò la sua città da un’altra rovina. Raccolse i suoi sostenitori, li inquadrò in una truppa e li dispose sotto le insegne Uguccione, accettando un comando nell’esercito di questo condottiero. Così furono sedati i timori degli invasori di una resistenza che sarebbe stata avventata e vana, ma allo stesso tempo si era creata una truppa bene armata e disciplinata pronta ad agire al minimo segnale di Castruccio, una truppa nominalmente al servizio del tiranno, ma in realtà devota per affetto e voto militare alla causa del suo comandante diretto. Castruccio non tradì di nuovo la fiducia dei lucchesi, ma, condividendo i consigli d’Uguccione e assumendo un tono autorevole a cui il condottiero non poteva resistere, contemporaneamente pose un limite all’arroganza e crudeltà d’Uguccione.

   Però, nonostante la sua iniziale imprudenza ad invitare Uguccione a prendere possesso di Lucca fosse stata perdonata dai suoi concittadini, in considerazione dell’ammenda che sinceramente desiderava fare, la situazione era vista in modo molto diverso dagli stati che, in odio al tiranno pisano e troppo lontani per conoscere tutte le circostanze attenuanti, considerarono Castruccio come un traditore. Le notizie dell’ingresso degli esuli ghibellini a Lucca, e della conquista di quella città da parte d’Uguccione, giunsero presto ai suoi avversari fiorentini e suscitarono rabbia e dolore in tutti quelli che le udivano. Il nome di Castruccio come traditore del suo paese fu ripetuto con indignazione e odio.

   Vi fu un animo gentile a Firenze che provò una sofferenza profonda nel sentire il nome degli Antelminelli associato ad un epiteto obbrobrioso. Eutanasia degli Adimari non aveva dimenticato il voto fatto molti anni prima. Aveva custodito nella sua memoria il ricordo del suo giovane compagno di giochi, e spesso, quando i viaggiatori venuti dalla Lombardia menzionavano il nome di Castruccio, le sue belle guance si arrossivano eloquentemente.

   Eutanasia era da lungo tempo rimasta orfana, il padre era morto e dal giorno della sua morte il legame più caro che aveva al mondo fu reciso. Mentre il padre era in vita lei restava quasi del tutto confinata nella sua stanza, a fungere da occhi ai suoi sensi accecati e fedele ai suoi voleri come lo erano state le orbite paterne prima che la loro luce si fosse spenta. Dopo la sua morte frequentò di più la gioventù nobile di Firenze e fece parte di quella società che, se dobbiamo giudicare dalle indicazioni che Dante offre nelle sue opere in prosa e dalla tenera e squisita poesia del Petrarca, era tanto raffinata, delicata e colta quanto la miglior società nella millantata cortesia dei tempi odierni. Tuttavia tra i giovani di Firenze Eutanasia era come un giglio che campeggiava sui fiori meno illustri ed egualmente belli di un giardino. La sua bellezza, i suoi talenti, e il dono dell’eloquenza fluente e mite che aveva, l’impetuosa genialità della sua ardente e temperata immaginazione, fece di lei la guida del piccolo gruppo a cui apparteneva. Si diceva che, come Dante sospirava per Beatrice, così parecchi giovani illustri di Firenze si nutrivano dei gesti graziosi e delle dolci parole di questa celestiale ragazza che, camminando in mezzo a loro, distaccata, seppur piena di entusiasmo, pareva unire i loro pensieri terrestri al paradiso. Spesso con il permesso della madre Eutanasia stava ritirata per mesi nel castello di Valperga, e sola tra gli Appennini selvaggi studiava e adorava la natura, quando il sole splendente riscaldava le vallate e gettava i suoi raggi sulle montagne, o quando il vascello argenteo della luna, che mostrava nel chiarore dell’aria il suo pesante carico, tramontava rapidamente ad occidente ed innumerevoli stelle testimoniavano la sua partenza. In quei momenti, abbandonando le eterne, immortali pagine del volume della natura, studiava con zelo le opere che aveva letto in precedenza con suo padre, o le ultime liriche di Dante, e collegava i suoi pensieri a quelli dei più sublimi geni, mentre il fuoco creativo del suo cuore e il cervello creavano nuove combinazioni che la deliziavano e la tenevano occupata.

   I suoi giovani amici salutavano con vera gioia il ritorno dal suo isolamento. Lei partecipava a tutti i loro divertimenti e non c’era nessuno come Eutanasia che potesse cantare le canzoni [2] di quel periodo, o narrare dei racconti tristi. Inoltre lei era così cauta, così saggia e così gentile che la sua assistenza era continuamente richiesta e accordata per ogni piccolo misfatto o difficoltà dei suoi amici.

   Ma l’età della spensieratezza e del piacere audace passò e Eutanasia si fece donna. In questo periodo una serie d’eventi la privò della madre e di due suoi fratelli, e così rimase la sola erede dei possessi della sua famiglia. Indipendente e potente, lei a Valperga e nei villaggi circostanti era come una regina. A Firenze era considerata una dei primi cittadini e se il potere, la ricchezza e il rispetto le fossero bastate sarebbe stata felice. Aveva pianto amaramente la morte dei suoi parenti, si lamentava per la perdite dei fratelli, e provava solo dolore a prendere il loro posto. Comunque, grazie alla completa indipendenza della sua condizione e alle opportunità che aveva per fare del bene, la sua mente acquisì una nuova dignità e le virtù del suo cuore un nuovo fervore. Nessuno contraddiceva le sue azioni, eccetto il rigido censore della sua stessa ragione e l’opinione dei suoi concittadini, al cui affetto e stima lei aspirava. Gran parte del suo tempo lo passava tra i dipendenti a Valperga, i villaggi sotto la sua giurisdizione prosperavano e i contadini erano orgogliosi del fatto che la loro contessa preferiva alle feste di Firenze stare insieme a loro. D’inverno visitava i suoi amici in città e molti nobili, che speravano di rivaleggiare con Dante Alighieri o Guido Cavalcanti, cantavano del miracoloso cambio di stagioni avvenuto a Firenze, delle loro estati ch’erano noiose, spoglie e deserte, mentre lo spirito della grazia risiedeva tra loro nei mesi invernali un tempo grigi.

   Si diceva che in quel periodo Eutanasia non aveva mai avuto un amore: ammirava gli spiriti illustri ed energici di Firenze e donava i suoi affetti a molti la cui virtù e talento reclamavano di diritto quella ricompensa. Ma lei non aveva mai avuto un amore. Sembrava ammirevole che una creatura dal cuore e dall’immaginazione così sensibili avesse compiuto ventidue anni senza aver provato la tirannia di quella passione, ma, se così è, come doveva essere tremenda la forza di quel potere, che alla fine poté infrangere le barriere alzate dalla ragione e dalla freddezza abituale e sommergere la sua anima con le dolci acque dell’amore terreno?

   Aveva appena compiuto ventidue anni mentre Castruccio nel 1314 tornava a Lucca, e quando sotto la sua egida il nemico più grande di Firenze divenne capitano della vicina città, la guerra tra i due stati fu dichiarata e Castruccio prese le armi contro i fiorentini. L’estate adesso era molto avanti e lei viveva la sua solitudine a Valperga. Eutanasia aveva il cuore dolente: uno dei suoi sogni più cari, l’egemonia di Castruccio, s’era infranto, e per un po’ ebbe il desiderio di tenere lontano dai suoi pensieri tutti i ricordi del mondo, che a quanto pare portavano disordine e contrasti compromettendo la sua tranquillità. Lei non riuscì in questo: era troppo nota, troppo amata per non essere ricercata da quelli che frequentava, e si spaventava ad ascoltare da ogni lato le lodi del talento e della virtù militare di Castruccio, le lodi dei ghibellini miste a speranza, e quelle dei guelfi cariche di timore.

   Non esiste un principio nella mente umana che prevede il cambiamento che si verifica in essa? Non esiste una sensazione che mette in guardia l’anima dal pericolo, se non fosse allo stesso tempo una sicura profezia che quel pericolo non va evitato? Così si sentiva Eutanasia e nelle sue meditazioni serali spesso interrogava il suo cuore: perché il nome di Castruccio le faceva arrossire le guance, perché le lodi o le disapprovazioni nei suoi riguardi sembravano elettrizzare il suo stato d’animo? Perché un’inquietudine senza nome penetrava i suoi pensieri, così sereni in precedenza? Perché, ricordando teneramente il suo compagno di giochi dell’infanzia, tremava così tanto all’idea di vederlo? E allora, strano a dirsi, pur così agitata e timorosa, lo vide, e una calma ancora più grande delle serene profondità di un paradiso senza vento, ridiscese nella sua anima e la avvolse di sicurezza e gioia.

   Non fu prima d’ottobre, mentre Eutanasia prolungava la sua permanenza a Valperga, che Castruccio prese la sua dimora a Lucca. Tornò là, ricoperto di gloria, ma molto insoddisfatto d’Uguccione che lo temeva e che, pur dimostrandogli un onore apparente, coglieva ogni occasione per ostacolare i suoi desideri e privarlo d’ogni potere e di voce in capitolo in assemblea. Ma Castruccio era a capo di un’ampia fazione, che a stento poteva tollerare la rozza arroganza di Uguccione e l’evidente presunzione dei suoi figli. Questa fazione aumentava di giorno in giorno, era osservata, insultata e molestata, ma tutta la gioventù ghibellina di Lucca si vantava di sostenere quella persona e di godere dei consigli di Castruccio.

   I mesi invernali passarono in un ozio apparente, però in realtà c’era un vero complotto ordito dalla parte di Castruccio. Uguccione era a Pisa e suo figlio, Francesco, poteva capire appena le astuzie dell’allievo di Alberto Scoto. Vedeva un atteggiamento franco e considerava la sua allegra condotta, ma l’esito delle sue osservazioni era che, pur essendo Castruccio sprezzante del pericolo e ambizioso di gloria, era troppo preso dal piacere e aveva una disposizione troppo ingenua per progettare qualsiasi piano di una certa importanza, o per desiderare di usurpare il potere statale.

   Castruccio era sulla torre del palazzo Antelminelli, con il giovane Arrigo Guinigi al suo fianco, attorniato da una mezza dozzina dei suoi soci più intimi, e dopo aver discusso per un po’ i progetti politici, rimasero tutti in silenzio. Castruccio era separato dal resto del gruppo. La torre degli Antelminelli dominava la città di Lucca ed essendo molto alta sulle strette e buie strade della città pareva, insieme alle altre numerose torri, formare un agglomerato urbano a sé stante e più gradito ai nobili sulle teste degli abitanti meno abbienti. La valle si stendeva intorno alla città, i campi erano spogli di vegetazione e punteggiati da macchie nere di boschi senza foglie, e la vista veniva interrotta dalle colline, innevate, e i loro fianchi rivestiti dal cupo verde dei lecci, mentre dalle loro pieghe facevano capolino le bianche mura dei paesi e dei castelli.

   Castruccio fissò il suo sguardo su uno di questi castelli. Le scene dimenticate della giovinezza si accalcarono nella sua memoria e lo oppressero per il numero e la vivacità. La voce bassa della madre risuonava nelle sue orecchie, la figura veneranda di Adimari era davanti a lui, e gli sembrò che le piccole dita di Eutanasia bambina stringessero la sua mano. Si voltò di scatto e chiese: «Lei vive ancora lì?», indicando il castello.

   «Chi? La contessa di Valperga?»

   «Sì, e sua figlia Eutanasia?» erano passati tanti anni da quando aveva pronunciato quel nome e sentì un brivido scuoterlo tutto al suono musicale di quella parola.

   «La contessa attuale», rispose Vanni Mordecastelli, «è giovane e senza marito.»

   «E il suo nome è Eutanasia», proseguì il conte Ludovico de’ Fondi: «È la figlia di Messer Antonio dei Adimari, che in vita fu uno dei capi del partito guelfo a Firenze, e grazie a sua madre lei adesso possiede il castello e il paese di Valperga.»

   «Sì», gridò un giovane, «E dicono che Ranieri della Faggiuola ha preteso la sua mano. Non è bene che la credulità di una donna, che darà ascolto ai primi bei discorsi che le vengono rivolti, faccia in modo che un possesso così importante come il castello di Valperga passi a quell’insopportabile covo di traditori.»

   «Tu non sai quello che dici», esclamò il vecchio Fondi, «quando parli con questa leggerezza della giovane contessa di Valperga. È una donna di gran prudenza, bellezza e saggezza e, anche se per anni è stata ambita dagli uomini più nobili d’Italia, lei è fiera della sua indipendenza e solitudine. Si mischia poco con i suoi concittadini, i suoi amici stanno a Firenze, dove lei passa molti mesi, insieme alla famiglie più altolocate.»

   «È bella come dicono?» chiese il giovane Arrigo Guinigi.

   «Indubbiamente è di una bellezza ammirevole, ma le sue maniere, così accattivanti e graziose, fanno quasi dimenticare la sua bellezza. Sfortunatamente lei non appartiene alla nostra fazione, ed è molto devota al papa come lo era la contessa Matilda.»

   «Eh sì, queste donne si fanno prendere così facilmente al laccio dai preti.»

   «No, Moncello, sbagli ancora se applichi i luoghi comuni alla condotta della contessa Eutanasia. Lei è devota alla causa della libertà di Firenze e non al potere del papa. Quando l’ho visitata al suo ritorno al castello, l’ho trovata davvero addolorata per la ripresa della guerra tra i nostri stati. Mi chiedeva seriamente se vedessi una prospettiva di pace, «Perché», diceva lei, «Sono più interessata alla concordia e all’alleanza delle parti che ad una delle fazioni che divide la nostra povera Italia».

   La conversazione poi passò ad altri argomenti. Castruccio aveva ascoltato in silenzio le lodi che il vecchio conte Fondi aveva rivolto all’amica della sua infanzia. Subito dopo, prendendo in disparte Arrigo, disse: «Mio giovane amico, tu devi fare un’ambasciata per me.»

   «Anche in capo al mondo, se lo desiderate, mio caro signore…»

   «No, è un viaggio breve. Tu domattina dovrai recarti al castello di Valperga e chiedere alla contessa il permesso per una mia visita. Le nostre famiglie, pur avendo opposti interessi, sono molto unite, e io avrei dovuto chiedere questo intervento prima.»

   Il giorno seguente Castruccio aspettò con ansia il ritorno d’Arrigo. Arrivò un po’ prima di mezzogiorno. «L’ho vista», gridò, «e avendola vista mi meraviglio del torpore di questi lucchesi che non emigrano tutti dalla loro città per andare al suo castello ed ammirarla tutto il giorno. Mi sembra di vivere solo da quando l’ho vista… lei è così bella, così deliziosamente gentile e delicata. Io vi ho sentito dire, mio buon fratello, che non avete mai incontrato una donna che potesse rimanere nel profondo del vostro cuore, così da farvi venerare l’eminente spirito della bellezza, che invano avete cercato e mai trovato. Andate a Valperga e, guardando Eutanasia, trasalirete e rivedrete la vostra eresia.»

   «E allora a cavallo, mio caro Arrigo. Lei acconsente a ricevermi?»

   «Sì, lei desidera vedervi, e con la più semplice tenerezza mi ha chiesto di comunicarvi il piacere che le fa ritrovare chi non ha mai dimenticato in questa lunga separazione.»



[1] Condottiere nel testo.

[2] Canzones nel testo



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