“Valperga”– Mary Shelley XXII

Creato il 08 febbraio 2012 da Marvigar4

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

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La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 22

Beatrice, in veste di pellegrina, visita Valperga. Castruccio racconta la sua storia.

La primavera avanzava e i monti spuntavano da sotto la neve: i castagni cominciavano ad avere il loro fogliame leggero come un ventaglio; il cupo leccio e i sugheri che coronavano i colli si liberavano del peso della neve, e gli olivi ora in fiore tempestavano i sentieri montani con i loro piccoli bocci. Il tepore profumava l’aria, la voce malinconica del cuculo s’alzava dalle foreste, le rondini tornavano dal loro pellegrinaggio e nelle dolci sere di luna piena gli usignoli si rispondevano nei boschi; le vigne verdi sovrastavano il grano che cresceva e fiori vari adornavano le rive di ogni torrente. Eutanasia guardava l’estate incombente con indifferenza: il suo cuore era occupato da un pensiero, da un’immagine e tutto ciò che vedeva, sia che fosse il monte innevato d’inverno o i campi fioriti di primavera, era rivolto ad un sentimento, ad un solo ricordo. Era decisa a non pensare più a Castruccio, ma ogni giorno, in ogni momento, era come uno specchio rotto, un riflesso moltiplicato della sua immagine sola.

I due si erano incontrati spesso l’inverno nei palazzi dei nobili lucchesi e talvolta nel suo castello. Lui era sempre gentile, deferente e a volte cercava di rinverdire il rapporto che c’era stato fra loro. Eutanasia non aveva la forza di volontà sufficiente per evitare questi incontri, però ogni incontro era come sangue vivo sottratto al suo cuore e la lasciavano in uno stato di disperazione e dolore che la tormentavano come la febbre. Vederlo, sentirlo e non essere sua era un cibo avvelenato: poteva alleviare i morsi della fame, ma distruggeva il principio vitale. Divenne pallida, insonne, l’ombra di quella ch’era stata. Gli amici videro il cambiamento e conoscevano la causa, cercarono di convincerla ad andare a Firenze, o a fare un viaggio che potesse distrarla e spezzasse la catena che la faceva soffrire. Sapeva che avrebbe dovuto seguire i loro suggerimenti, ma ancora il suo spirito, forte e autosufficiente come sempre, era sotto l’influenza dell’amore e non aveva la facoltà di fuggire, anche se restare significava morire. Le lacrime e il dolore erano la sua razione quotidiana, eppure la sopportava con pazienza, come se fosse una condanna, e non chiedeva quasi più che le fosse risparmiato l’amaro calice.

Una circostanza che accadde proprio durante questa crisi, quando sembrava stare sull’orlo amaro che divide la vita dalla morte, la salvò dalla distruzione e la riportò a gustare per pochi anni ancora il piatto della sofferenza e della delusione che le veniva consegnato.

Il solstizio estivo era passato e Castruccio era stato assente per molti mesi, impegnato nelle conquiste al di là del Magra, e ogni giorno portava con sé le notizie di un nuovo successo da lui ottenuto. Era la stagione dei pellegrinaggi a Monte San Pellegrino, un’altura selvaggia vicino a Valperga. Si narra che un re di Scozia, consegnando al figlio la sua corona ed esiliandosi, finisse i suoi giorni in penitenza e preghiere su questo monte. In Italia ogni anonimo pellegrino era un re o un principe: ma era una tradizione strana, come se il regale penitente, non amando le belle pianure italiane, cercasse una rassomiglianza con il suo paese d’origine su questo picco brullo tra i massi aguzzi degli Appennini.

La memoria di questo re era celebrata e molte indulgenze erano il premio per tre visite successive alla sua tomba di roccia; ogni anno accorrevano tantissimi pellegrini e ancora continuavano ad accorrere. Trascinandosi sui sentieri della montagna, incuranti del sole cocente, camminavano, riparati da grandi cappelli, ripetendo i loro pater noster, e così, disprezzando il corpo, compravano indulgenze per la salvezza dell’anima. Molti al ritorno visitavano il castello di Valperga e venivano ospitati. Un gruppo stava per entrare e, mentre l’Ave Maria risuonava nella valle, cantava l’inno serale man mano che l’erto ripido si riduceva. Eutanasia li sentiva dalla torre, udiva l’ultimo canto della cicala assonnata tra gli olivi e il ronzio dei tanti insetti notturni che riempivano l’aria con il loro leggero e continuo suono. Nella sera di un giorno molto caldo, la brezza che muoveva leggermente l’erba e avvolgeva il grano maturo col suo ritmo veloce, era come un bagno rinfrescante per gli animali che boccheggiavano nell’aria stagnante del giorno. Tra il brusio dei grilli e delle libellule, il verso monotono e regolare dell’assiolo cantava i cieli chiari e il tempo assolato. I fiori si piegavano per la rugiada e l’acacia, ora in fiore, incoronava il suo fogliame con una cresta rosa, emanava un dolce profumo. Poche lucciole restanti volavano qua e là con una leggera luce, ma era luglio e il loro momento era pressoché passato. Verso il mare, all’orizzonte, un vago fulmine mostrava lo stato surriscaldato dell’atmosfera e annientava con il suo lampo le ultime meraviglie del tramonto arancione. I monti perdevano le varie tinte nel buio, il loro vasto anfiteatro pareva un pesante informe muro che s’appressava a Lucca, le cui luci baluginavano da lontano.

Eutanasia fu svegliata dalla fantasticheria, metà dolorosa e metà piacevole, che coltivava mentre stava alla finestra (era una figlia della natura troppo sincera per non sentire le sue pene alleviate dalla vista di ciò che è bello nel mondo visibile). Fu svegliata dal suo servo che le diceva che una pellegrina era al portone e desiderava vedere la dama del castello. «Accoglila», disse Eutanasia, «e conducila al bagno. La vedrò quando si sarà rinfrescata.»

«Non vuole entrare», replicò il servo, «ma desidera vedervi subito, così dice: si rifiuta assolutamente d’entrare nel castello.»

Eutanasia scese giù, il suo passo leggero e rapido calcò il pavimento del salone, le sue lunghe trecce dorate ondeggiavano al vento e i suoi occhi azzurri sembravano imbevuti del ciano di giorni lontani, così profondi, così chiari. La pellegrina era alla porta appoggiata ad un bastone, un gran cappello ricopriva il suo capo fino alle sopracciglia e il mantello ruvido scendeva con pieghe confuse attorno alla sua figura snella. Eutanasia, abituata a vedere solo i contadini salire su questa montagna, fu colpita dalla piccola mano che reggeva il bastone e dalla forma delicata e candida dei piedi che, in sandali molto grezzi, sembravano un po’ rovinati dallo sforzo.

Le disse: «Vi prego di entrare nel castello per riposarvi. L’Ave Maria è passata e le vostre fatiche diurne sono terminate. Troverete un bagno, cibo e alloggio. Non entrate?» Eutanasia fece cenno con la mano.

«Signora, io non devo. Vi prego soltanto di concedere il vostro obolo a una pellegrina che va a Roma, ma che si è fermata per realizzare un voto tra queste montagne.»

«Molto volentieri, però anch’io ho fatto un voto, che è di non accettare che un pellegrino stanco esca dalla mia porta senza cibo e riposo. Dove potete andare stanotte? Lucca è lontana sei lunghe miglia e voi siete affaticata e debole: venite, l’obolo che vi chiedo sono le vostre preghiere da recitare su di un soffice cuscino di un bel letto nei vostri sogni di questa notte. Entrate, la rugiada che cade dal cielo terso dopo un giorno caldissimo può farvi male: questa è un’ora pericolosa nella pianura, non ne siete convinta?»

Eutanasia vide delle gocce cadere dagli occhi neri e splendenti della povera pellegrina, che guardò il cielo dicendo: «Sia fatta la vostra volontà! Io ora sono tutta umiltà.»

Appena scoprì il capo Eutanasia vide il suo aspetto: era bello, ma arso dal sole e disordinato; i suoi occhi finemente intagliati, le sue labbra che seguivano le linee della bellezza, il mento puntuto e con la fossetta emanava grazia, e la sua voce era bassa e argentina. Entrò nel castello, ma non sarebbe andata oltre la sala esterna. L’eloquenza di Eutanasia non servì a nulla e dovette far portare cuscini e cibo lì dov’era: si sedettero. La pellegrina si tolse il cappello e i riccioli neri e soffici le caddero sul viso, lei li scostò con le sue piccole dita e poi si mise giù con lo sguardo basso e silenziosa.

Eutanasia le mise davanti frutta, carne e vino. «Mangiate, dovete essere molto affaticata.»

La povera pellegrina tentò, ma le sue labbra rifiutavano la frutta che avrebbe voluto gustare. Sentiva che stava per piangere e, arrabbiata per la sua debolezza, bevve un po’ di vino, che la risollevò un po’. E allora, così seduta, sopraffatta, curva e dolente, vicina alla grazia dolce di Eutanasia, queste due donne entrarono in conversazione, da una parte pacata e confortante, dall’altra esitante e spezzata. All’inizio la pellegrina guardò per un momento i capelli dorati e gli occhi azzurri d’Eutanasia, il suo sorriso divino e la fronte chiara, poi disse: «Voi siete la dama di questo castello? Vi chiamate Eutanasia?»

«Proprio così. Posso a mia volta chiedervi chi siete voi, che vagate sola ed infelice? Credetemi, mi riterrei molto fortunata se mi permetterete di conoscere il vostro dolore e darmi la possibilità di consolarvi. Se piangete i vostri peccati, un momento di autentico pentimento non li annienterà tutti? Su, sarò il vostro confessore e vi imporrò le penitenze lievi dell’allegria e della speranza. Piangete la morte dei vostri amici? Povera ragazza! Non piangete. Questo è un dolore che solo il tempo può curare: e il tempo può curarlo se con cuore sereno vi dedicate a nuovi affetti e sentimenti gentili. Mia dolce, calmate la tempesta che vi agita: se pregate, che le vostre parole non siano gocce di una sofferenza estrema, ma la rugiada mattutina di fede e speranza. Siete silenziosa, in collera perché parlo; debbo davvero premiare la tenue pace che per anni era prigioniera del mio cuore, tanto d’averla elargita agli altri con sforzo sincero come avrei cercato per me di richiamarla al nido dalla quale è fuggita.

«Come! Non siete felice?» Gli occhi della pellegrina che ancora erano nascosti sotto le palpebre abbassate si accesero improvvisamente.

«Ho avuto la mia parte di tranquillità. In venticinque anni pochi dolori, placati da pianti naturali e presto asciugati. Ora i miei affanni s’infittiscono mentre, credetemi, cerco di dissiparli con grande impegno. Ma voi siete giovane, molto giovane, avete bevuto il fiele e ora verrete al miele del vostro bicchiere. Perché siete diretta a Roma?»

«Fosse un lungo racconto, signora, io non avrei voglia di narrarlo. Eppure, mi sembra che voi siate felice: i vostri occhi sono dolci, creati per la pace. Ho pensato, ho sentito, che mille circostanze benedette vi hanno portato ad essere fortunata più di tutti gli altri.»

«Le circostanze cambiano così in fretta come le nubi di un cielo autunnale. Se la felicità dipende dalle occasioni, com’è instabile! Possiamo soltanto definire felice ciò che vive nel nostro petto. E anche questi sentimenti sono legati alla mutevolezza e, come senza dubbio i sacerdoti vi hanno insegnato a lungo, non c’è gioia che duri sulla terra.»

«Come! Non è morto! Deve esserlo…» La pellegrina si fermò subito, la guance arrossirono.

«Chi è morto? Cosa volete dire?»

«Vostro padre, vostro fratello, chiunque voi amiate. Ma, signora, non la importunerò più. La rugiada è caduta e io trovo l’aria del castello chiusa e soffocante. Ho bisogno d’aria fresca.»

«Non dormirete qui?»

«Non debbo. Non chiedetemelo ancora, mi fareste molto male, devo portare a termine il mio viaggio! »

La pellegrina raccolse i suoi riccioli neri e li sistemò nel cappello, poi, appoggiandosi al bastone, porse la sua piccola mano e disse a voce smorzata, così bassa che il tono fece vibrare appena l’aria, «La vostra elemosina, signora.»

Eutanasia prese dell’oro, la pellegrina sorrise mestamente e aggiunse: «Il mio voto m’impedisce di ricevere più di tre soldi [1]. Che quella somma sia il limite del vostro sostegno generoso.»

Eutanasia trovò nei modi dell’ospite qualcosa di così inspiegabile, riservato e quasi altezzoso, che si sentì frenata e mal disposta ad insistere di fronte ai suoi rifiuti. Le dette la piccola somma richiesta: «Siete avara nelle vostre cortesie, questo mi farà ottenere appena un pater noster

«Comprerete il tesoro del mio cuore con preghiere per la vostra salute; preghiere che io un tempo credevo fossero del tutto potenti, ma forse valide come quelle del mendicante a cui facciamo l’elemosina per la strada.»

La pellegrina parlò prontamente e con dolcezza, in seguito si rimise il mantello e lasciò il castello, scivolando giù per la discesa. Dopo un po’ che era partita, Eutanasia mandò un servo al convento di Sant’Ursula, ch’era sulla strada che la pellegrina seguiva, con un cesto carico di frutta, vino e altro cibo e un messaggio alle suore di prendersi cura e accogliere la sventurata straniera. Tutto avvenne come lei desiderava. La pellegrina entrò nel convento e, dopo una preghiera nella cappella, e un silenzioso e frugale pasto di carne, frutta e pane, andò a riposare nella sua cella bassa. La mattina dopo la badessa intendeva farle delle domande e convincerla a ricevere qualche conforto, ma, prima dell’alba, la pellegrina aveva lasciato il convento e, a passi lenti ed un cuore triste, proseguì il suo viaggio per Roma.

Questo evento colpì molto Eutanasia. Sentì che c’era qualcosa d’insolito nella visita della straniera e che, pur essendo una sconosciuta, le univa un qualche legame che inutilmente cercò di scoprire. Accadde che, circa due settimane dopo, si trovasse al palazzo Fondi in Lucca, dove Castruccio era presente, e raccontasse l’avvenuto, soffermandosi sulla bellezza della pellegrina, i suoi modi garbati e il profondo dolore. Quando lei descrisse il suo aspetto e il volto, Castruccio, colto da un qualche ricordo improvviso, andò da Eutanasia e iniziò a chiederle con precisione quali erano le parole e i lineamenti della straniera. Poi, controllandosi, si ritirò e cominciò a parlare con un’altra persona. Tuttavia quando Eutanasia s’alzò per uscire lui s’avvicinò e le disse a voce bassa: «Temo di poter risolvere l’enigma di questa sfortunata ragazza. Permettetemi di vedervi domani da solo. Debbo sapere tutto quello che è successo.»

Eutanasia assentì e attese con impazienza la visita.

Arrivò e lei su sua richiesta raccontò scrupolosamente tutto ciò ch’era avvenuto. Castruccio ascoltò con attenzione e, a sentire quelle che erano state le sue ultime parole, gridò: «Deve essere lei! È la povera Beatrice!»

«Beatrice! Chi è Beatrice?»

Castruccio provò ad eludere la domanda e poi a rispondere raccontando poche insignificanti circostanze, ma Eutanasia, sorpresa dai suoi modi, lo interrogò così seriamente che lui finì per narrare tutta la storia. Eutanasia fu profondamente commossa e una profonda pietà seguì lo stupore iniziale, stupore per i suoi poteri e gli strani errori, poi compassione per i suoi dolori e la rovinosa caduta. Castruccio, sul filo del ricordi dei suoi incanti, parlò con passione rammentando appena con chi stava parlando e, quando finì, Eutanasia esclamò: «Deve essere inseguita, riportata indietro, consolata. La sua desolazione è grande, ma c’è una cura per essa.»

Poi concertò con Castruccio il piano per seguire i suoi passi e indurla a tornare. Furono inviati messaggeri sulla via per Roma, con la promessa di un’alta ricompensa se l’avessero trovata, altri furono mandati a Ferrara per sapere se i suoi amici fossero a conoscenza della sua pista. Queste ricerche durarono molte settimane, ma furono senza frutto: i messaggeri da Ferrara riferirono che lei aveva lasciato la città di primo mattino la primavera precedente per un pellegrinaggio a Roma, e da allora non se n’era saputo più niente. Madonna Marchesana, inconsolabile per la sua partenza, morì e il buon vescovo Marsilio, che non era tornato dalla Francia, dov’era stato fatto cardinale, era troppo lontano per capire le ragioni della sua partenza, o per intervenire su di esse. Nemmeno le notizie da Roma erano più precise. Fu seguita da Lucca a Pisa, Firenze, Arezzo, Perugia, Foligno, Spoleto e persino Terni, ma tutte le tracce s’erano perse. Parve sicuro che lei non fosse mai giunta a Roma. Nessun sacerdote la conosceva. Fu esaminata ogni chiesa e convento, ma di lei nessuna traccia. Ogni sforzo fu vano: sembrava come se si fosse buttata nelle viscere della terra.

Durante il periodo di queste ricerche, un gran cambiamento avvenne nella mente d’Eutanasia. Prima, sebbene l’umore fosse stato turbato da tempeste e oscurato da nubi pesanti, il suo amore l’aveva sempre sorretta verso un punto con una forza irresistibile e sembrava come se alla fine fosse la sua vittima, anima e corpo. Adesso la marea rifluiva e la abbandonava, come uno sventurato su di una roccia, quando l’oceano si ritira all’improvviso e gli restituisce inaspettatamente la vita. Aveva amato Castruccio e, come fosse il rifugio di menti pure ed esaltate, aveva separato l’oggetto del suo amore da tutti gli altri esseri e, investendolo di gloria, per lei non era più uno del branco, né per un momento poteva confonderlo e metterlo insieme ai suoi simili. Questo è il sentimento che è l’essenza e la vita dell’amore e che, resistendo ancora persino dopo che la stima e la compassione sono state distrutte, aveva causato l’eccessivo dolore in cui lei era sprofondata. Si era separata dagli altri come la sua favorita, era stata scelta da tutto il mondo per amarlo, c’era quindi una barriera immensa tra lei e tutto il resto. Nessun sentimento poteva passarle in mente senza la sua immagine, nessun pensiero che non portasse la sua effigie per distinguerlo dagli altri pensieri; come la luna brilla in cielo, perché il sole la illumina con i suoi raggi, così lei avanzava sul suo alto cammino con serena maestà, protetta con il suo amore per lui da tutte le inutili preoccupazioni e gioie. Tutta la sua persona era consacrata da quando s’era dedicata a lui, ma, il dio non deificato e gli onori della sacerdotessa toccarono la polvere. La storia di Beatrice spezzò l’incanto. Eutanasia adesso lo guardava alla comune luce del giorno. L’illusione e l’esaltazione dell’amore svanirono per sempre: e, benché la delusione e l’amarezza della speranza infranta le sottraessero ogni sensazione gioiosa, non ci fu più quella folle disperazione, aggrappata alla spada che la squarciava, che prima aveva macchiato le sue guance con i colori della morte. Tornarono i suoi vecchi sentimenti di dovere, benevolenza e amicizia. Adesso non tutto era rivolto come prima solo all’amore. Gli alberi, i ruscelli, i monti e le stelle non narravano più lo stesso racconto di passione delusa: prima, le avevano oppresso il cuore ricordando, in ogni cambiamento e forma, ciò che in passato aveva visto con gioia; e le lasciavano nell’anima un peso così grave e triste, che lei avrebbe esclamato come un poeta moderno ha fatto:

Tu, tordo, che canti piano piano, e libero,

Nella tua fila di salici voli,

Su quell’ontano siedi,

O canti un’altra canzone, o scegli un altro albero!

Torna, dolce ruscello, alla tua montagna,

E là per sempre le tue acque siano in catene!

Perché tu ricolmi l’aria di suoni

Che non si possono tenere.

Non essere altro, dolce ruscello, che quello che ora sei. [2]

Ma ora queste emozioni febbrili cessarono. Il dispiacere languiva nel suo occhio rabbuiato, frenava il passo leggero e dormiva con le fossette distese delle sue belle guance; ma la sfrenatezza del dolore era spenta, la fontana delle lacrime egoiste non scorreva più, e dalla morte fu restituita alla vita. Considerò Castruccio legato a Beatrice, all’amore profondo e all’angoscia per le sorti della profetessa in disgrazia, a tutte le sue virtù, persino ai suoi difetti; vincolato al suo inganno per lei, che era allora la sua fidanzata e che aveva truffato a cuor leggero, e così provò come lui fosse poco capace a partecipare ai suoi sentimenti sublimi. Ritenne che sarebbe stato assai più felice nell’amore appassionato e incondizionato per questa esaltata che con lei, che aveva vissuto troppo per essere soddisfatta da sola con l’affetto di lui che amava, ma che richiedeva una corrispondenza di gusti in cui lei era stata allevata e che mancavano del tutto a Castruccio. Era per metà felice, per metà dispiaciuta del cambiamento che aveva osservato compiersi nel suo cuore, poiché la desolazione sopportata in precedenza non era senza intervalli momentanei, colmato dal suo amore pieno con sogni e speranze, causa di un irrefrenabile trasporto che, sebbene la distruggesse, era ancora gioia, ancora piacere. Ma adesso non c’erano cambiamenti: una vuota e dura disperazione era davanti a lei, le energie effettive della sua mente erano paralizzate, la sua immaginazione ripiegava le sue ali, e la ragione era l’unico abitante che trovava sostentamento ed essere nella sua anima arretrata.



[1] In italiano nel testo.

[2] Il poeta è William Wordsworth (1770-1850), la poesia è Tis said, thet some have died for love, vv 25-32 e 36.



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