“Valperga”– Mary Shelley XXX

Da Marvigar4

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

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La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 30

Il racconto di Beatrice.

Fu svegliata da questa fantasticheria dalla voce di Beatrice che le chiedeva di farsi vicina. «Mi sono quasi rimessa», disse, «anche se stanca. Sono stata molto malata oggi e sono terrorizzata a pensare alla violenza delle mie sensazioni. Ma sedetemi accanto, cara amica. Ora è notte, non sentirete nulla se non la mia flebile voce che promette di raccontarvi la mia storia infelice.»

«Mia Beatrice, non tormentatevi con questi ricordi. Dovete cercare soltanto la calma e la pace, che la memoria si seppellisca da sola.»

«No, dovete sapere tutto», rispose Beatrice stizzita, «Perché mi ostacolate? Io faccio meglio quando seguo le mie più piccole inclinazioni, perché se tento di combatterle mi ammalo di nuovo, come stamani. Sedetemi accanto, vi farò spazio qui sul mio letto. Datemi la mano, ma voltate i vostri occhi dolci. Ed ora vi dirò tutto.

Sapete che ho amato Castruccio e a stento riesco a dirvi quanto: l’ho amato al di là dell’amore umano, poiché pensavo che il cielo fosse intervenuto per unirci. Pensavo… Ahimè! È con vivo dolore che ricordo i miei sogni folli… che noi due eravamo stati scelti dal resto del mondo, dotati di celestiali facoltà. Mi sembrò una offerta della Provvidenza di averlo incontrato al culmine della mia gloria, quando ardevo di trionfo e di gioia. Non credo, mia Eutanasia, che abbiate mai provato l’esperienza della forza e del fuoco delle mie sensazioni. La vittoria in una lotta quasi disperata, il successo nell’arte, lo stesso amore sono sentimenti terreni, soggetti al mutamento e alla morte, ma, quando queste tre meravigliose sensazioni sono concesse dall’intervento visibile del cielo, dando così sicurezza a chi è instabile ed eternità a ciò che sfugge, un evento del genere fa traboccare la tazza già stracolma, intossica il cervello e rende colei che le sente più che mortale.

Ho avuto Vittoria e Gloria e una certezza della divina ispirazione, la fama di ciò che ero si sparse tra la gente del mio paese. Poi venne l’amore, mi carezzò, m’attenuò e mi dominò. Bene, non ci farò caso: concepire che tutto ciò che provavo era umano, comune ed ora svanito, mi disgusta e mi fa guardare indietro con orrore al mio paradiso perduto. Castruccio mi lasciò ed io restai, non so dirvi per quanto tempo, pallida, immobile e rapita. Passarono ore, che credevo giorni. Non so dirlo, credo che fossi davvero pazza. Eppure stavo zitta, non una parola, non una lacrima, non un suono mi sfuggiva, se non uno che chiamava il nome di Castruccio dinanzi a me, e poi singhiozzavo. Non deliravo o piangevo forte, strisciavo come un’ombra, rimuginando sui miei pensieri e cercando di indovinare il mistero del mio destino.

Alla fine andai dal mio buon padre, il vescovo, m’inginocchiai davanti a lui: “Alzati, cara fanciulla”, disse. «Come sei pallida! Cos’ha acceso il fuoco dei tuoi occhi luminosi?”

“Padre, padre santo”, risposi, “Non mi alzerò finché non mi risponderete a una domanda.” Il mio aspetto era tirato dalla mancanza di riposo, i miei capelli spettinati mi cadevano sul collo, i miei occhi potevano appena distinguere gli oggetti.

“Beatrice mia benedetta”, disse il buon vecchio, “sei molto sconvolta: ma parla, so che non puoi chiedermi nulla che io possa rifiutarmi di dire.”

“Ditemi allora, per le vostre speranze nel cielo” , gridai, “se è stata usata una frode nel Giudizio di Dio a cui sono stata sottoposta, o come sono sfuggita al fuoco terribile dei carboni ardenti.”

Le lacrime spuntarono negli occhi di mio padre. S’alzò e m’abbracciò e sollevandomi disse con passione, “Grazie a Dio! Le mie preghiere sono esaudite. Beatrice, non ti ingannerai, non ti ingannerai più e non essere infelice, ma rallegrati che la falsità sia rimossa da te e che tu possa tornare dalle tue estasi selvagge e febbrili a una pietà vera e reale.”

“Questo va tutto bene” , risposi con calma, “ma ditemi veramente cos’è accaduto.”

“Non posso, bambina mia, perché io stesso ero all’oscuro. Io so solo che la frode fu di certo usata per la vostra liberazione. Bambina mia, noi abbiamo tanto sbagliato, tu meno di tutti, perché tu sei stata raggirata, trascinata dai tuoi sentimenti ed immaginazione a credere d’essere ciò che non sei.”.

Non vi ripeterò tutto quello che disse il vescovo. Fu severo ma gentile. All’inizio mi fece vedere come m’ero ingannata e avevo nutrito l’estasi e i trasporti dell’anima che non erano per niente uniti alla santità, poi mi disse come dovevo riparare i miei errori con profonda umiltà, preghiere e una fede ferma solo in ciò che altri insegnavano, non in quello che io immaginavo. Ascoltai in silenzio, ma sentii ogni parola. Ero molto docile, credevo a tutto quello che diceva e sebbene la mia anima sanguinasse con la sua sofferenza, non accusavo nessuno, se non me. In principio pensai di comunicare ai miei concittadini il loro errore. Ma, non assistita dai miei poteri soprannaturali, ora mi ritirai da ogni manifestazione. Nessun velo, nessun muro poteva nascondermi sufficientemente, perché non potevo nascondermi da me stessa. I miei veri poteri verbali mi abbandonarono e non riuscivo ad articolare una sillaba. Ascoltavo, gli occhi a terra, le guance pallide. Ascoltavo fin quasi a diventare marmo. Infine il buon vecchio smise e, con molte parole di affettuoso conforto, mi pregò d’andare e rappacificarmi con il mio cuore, poi disse che sperava di insegnarmi una via serena per la felicità. Felicità! Di certo dovevo essere di pietra dato che non aggrottavo le sopracciglia, né ridevo quando quella parola fu associata a tutto ciò che in seguito potevo provare. Baciai la sua mano e mi ritirai.

Avete mai provato la vera umiltà? Una prostrazione dell’anima che si accusa da sola e chiede il perdono di un potere superiore con tutta la penitenza, un abbandono fiducioso d’ogni merito, una persuasione intima e accorata della propria indegnità? Era ciò che provavo. Ero stata vanitosa, fiera, presuntuosa. Caddi nella totale povertà di spirito, anche se non era povertà, perché c’era una ricchezza nella mia penitenza che mi ricordava il testo sacro che dice “Oh, fosse la mia testa acqua, e i miei occhi una fontana di lacrime!”[1]

A quest’umiliazione mentale seguì un desiderio di mortificare e punire me stessa per la temerarietà e gli errori. Ero posseduta da uno spirito di martirio. A volte pensavo di dovermi sottomettere ancora al Giudizio di Dio legittimamente e rettamente: ma m’ero ritirata dalla pubblica mostra, inoltre il buon vescovo aveva duramente redarguito queste tentazioni della giustizia di Dio. Altre volte pensavo di dover confessare tutto al mio nobile padre e questo forse era quello che avrei dovuto fare, perlomeno mi avrebbe davvero fatto riacquisire una parte della calma che avevo perso. Ma non potevo. Il pudore femminile me lo proibiva. La morte sarebbe stata un’alternativa assai preferibile. Alla fine un’idea mi colpì, che ai miei sensi sovraccarichi parve trascendere ogni altra penitenza, un’infelicità e un’angoscia che avrebbe potuto bene redimere i miei peccati estremi.

Credete che mentre mi umiliavo così avessi dimenticato Castruccio? Mai! L’amore che avevo per lui m’era attorno, inaspriva la mia anima e mi teneva sempre viva nel dolore. Amarlo! Lo adoravo. Sussurrare soltanto il suo nome in solitudine, dove nessuno poteva udire la mia voce se non il mio orecchio acutissimo, mi faceva fremere. Cercai di bandirlo dai miei pensieri. Lui tornava nei miei sogni che non riuscivo a controllare. Lo vedevo là, bello com’era in realtà, e il mio cuore era acceso dall’emozione. Bene, fu in questo eccesso d’amore che innalzai la mia penitenza, che era quella di fare la pellegrina e chiedervi l’elemosina. Eutanasia! Conoscevo solo il vostro nome, l’idea di vedervi mi faceva rabbrividire. Fu tre mesi prima che riuscissi a rafforzare il mio cuore con questa decisione. Non vedevo nessuno, non parlavo a nessuno, ero presa solo dalla mie meditazioni e quelle erano profonde e minate come l’oceano.

Bene, com’ho detto, indugiai a lungo e con intensità sul mio progetto, finché ogni momento mi sembrò un crimine che esisteva prima che lo ponessi in esecuzione. Il lungo inverno passò così. La mia povera madre, Madonna Marchesana, m’assisteva, come una bambina poteva guardare il suo uccellino preferito sbattere le ali nell’agonia della morte. Vedeva che qualche misterioso e doloroso sentimento mi opprimeva, che io non apparivo più in pubblico, che evitavo la venerazione dei miei ammiratori, che lo spirito profetico era morto in me. Ma io tacevo, me ne stavo in disparte e il suo rispetto per me (Angeli del cielo! Il suo rispetto per me!) anticipava qualsiasi domanda. A primavera il vescovo Marsilio fu promosso ad un’altra sede e fu costretto ad andare ad Avignone per ricevere l’investitura. Nobile ed adorato vecchio! Mi benedisse e mi baciò e con consigli accorati partì. Non l’ho mai più visto.

Quando se n’andò la fatica della mia partenza fu alleviata e con parole gentili ed esitanti dissi alla mia madre prediletta che avevo fatto voto d’andare in pellegrinaggio a Roma: desiderava accompagnarmi. Quelli furono momenti strazianti, mia Eutanasia, quando lasciai tutti i miei amici che mi amavano e che ho sempre amato: sapevo che non li avrei più rivisti. Come lo sapevo? Veramente, dopo aver fatto il voto che vi riguardava, volevo visitare i sepolcri a Roma e poi avrei potuto far ritorno. Non ero una profetessa e ancora sento che il mio non fu un pellegrinaggio, ma una separazione eterna da tutti i precedenti rapporti, da tutti quelli che avevo conosciuto. Così, disperata del bene futuro, lasciai tutti quelli che avevano comunque reso la vita sopportabile sotto ogni aspetto: lo feci per soddisfare il mio senso del dovere, per fare omaggio alla divinità da qualche espiazione per le sue leggi violate. feci questo e da allora in poi sarei stata un’emarginata, un povero arboscello solitario in una desolata brughiera, una singola canna in un vasto e traboccante fiume.

Avevo conosciuto troppo sfarzo nella mia gioventù. Tutti m’amavano e si rivolgevano a me, avevo visto su di me occhi raggianti d’affetto, sorrisi tutti per me, parole di profondo interesse e rispetto che erano diventati una mia seconda natura. Partii da sola alle quattro del mattino da Ferrara dall’uscita segreta del palazzo della viscontessa, in una chiara e piacevole giornata primaverile. Ero vestita come la più umile pellegrina e nascosi accuratamente le mie bianche mani e le belle gote, che avrebbero potuto tradire il mio modo di vita del passato, salvo naturalmente quand’ero sola… allora amavo levarmi il mantello per scoprire le mie braccia, la mia faccia, il mio collo ai raggi cocenti del sole, per poter presto distruggere una delicatezza che disprezzavo: l’opera si compì presto, poche ore di esposizione al sole di mezzogiorno bruciarono la mia pelle e la resero rossa e ordinaria.

Il primo giorno fu di puro dolore, il sole seccò il mio corpo, i miei piedi erano pieni di vesciche, le mie membra dolevano. Camminavo tutto il giorno finché la fatica fisica cullava la mia angoscia mentale, perché ero infelice oltre ogni dire. Sola, abbandonata da Dio e dagli uomini, avevo perso il mio saldo supporto, la mia fede nei miei poteri. Avevo perso i miei amici e scoprii che Beatrice, la vana, libera abitante delle nuvole, era in realtà una povera creatura subalterna, il cui cuore crollava quando la sera giungeva a un ruscello chiaro che scorreva in un boschetto e non trovava una tazza per bere e le prelibatezze per soddisfare il suo appetito. Trascinavo le mie stanche membra tre miglia più in là, ad un ostello per pellegrini, e mi dolevo del mio maledetto riparo e del mio ancor più maledetto letto: io, l’eterea profetessa, che immaginavo di potermi cibare d’aria e bei pensieri, che avevo considerato il mio corpo al servizio del mio volere, alla fame e alla sete solo quando io l’ordinavo.

Sola! sola! Viaggiavo giorno dopo giorno, in tappe corte ma estenuanti e sentivo il dolore della solitudine totale e forzata; il sole cocente splendeva e la sera cadeva la rugiada, ma non c’era brezza, né fresco per ristorarmi; le notti erano serrate e i miei arti, secchi dalle scottature del giorno, rigidi per il cammino, bruciavano tutta la notte come se una fornace vi ardesse dentro. Questi erano piccoli mali? Ahimè! Ero una bambina viziata e ogni dolore era per me una sofferenza atroce.

Caddi malata, una sera presi un raffreddore quando subito dopo il tramonto mi gettai sotto un albero per riposare e la rugiada malsana cadde su di me. Avevo una febbre lieve che per tanto tempo non capii, facendomi sentire un giorno bene e il successivo febbricitante, fredda e languida. Alcune suore in un ostello scoprirono il mio disturbo e mi curarono. Restai confinata per sei settimane e, quando mi alzai, ben poco della luce dei miei occhi o della bellezza su cui Madonna Marchesana era solita soffermarsi, sopravvissero a quest’attacco. Ero giallastra, magra… l’ombra di quello che ero stata. Attraversai gli Appennini durante l’estate, e passando da Firenze arrivai a Pistoia all’inizi di giugno. Ma allora il mio cuore mi venne di nuovo meno; conoscevo il vostro nome, la vostra ricchezza, bellezza, il rispetto e l’adorazione suscitate dappertutto: era una doppia penitenza umiliarmi davanti a una rivale così eccellente. Se voi foste stata senza valore, un orgoglio contento di sé avrebbe alleviato le mie ferite, ma ossequiare una mia eguale… oh! assai superiore a me… era una nuova lezione per la mia anima cocciuta. Rimasi quasi tre mesi a Pistoia, molto triste, in dubbio… a cercare, come una barca che sposta sempre la vela, ma non può trovare il vento giusto per entrare in porto.

Sono venuta da voi a settembre, ricordate il mio arrivo? Ricordate il passo esitante e la mia voce bassa e tremante? Avevo le vertigini, ero malata, credevo che la morte incombesse, perché niente se non quel gran mutamento poteva causare un tale annientamento delle mie facoltà, un tale naufragio totale del mio spirito.

Avevo la rugiada fredda sulla mia fronte, gli occhi erano assenti e senza vista, tremavo tutta come avessi le convulsioni. Castruccio vi ha amato! Castruccio! Tanto tempo è passato da quando ho menzionato il suo nome: durante questo viaggio faticoso la sua amata immagine non lasciò per un momento il suo tempio, la sua sola dimora, che ancora e per sempre mi riempie. Amarlo! Era follia. Eppure l’amavo… lo amo… mettete la mano sul mio cuore… non batte veloce?»

Eutanasia baciò la fronte della povera Beatrice e lei, dopo una breve pausa, continuò:

«La mia penitenza era completa, ma non riuscita. Una tristezza indomabile era su di me; sogni tristi infestavano il mio sonno e le loro immagini vagavano nei miei pensieri diurni, come spettri cupi e sottili che mi spaventavano e stordivano. Una volta, non potrò mai scordarlo, fui oppressa per parecchi giorni da una malinconia asfissiante e nera, che in nessun modo potrei descrivere. Non era rammarico o dolore. Era un sprofondamento, una annientamento di tutti i miei poteri mentali in cui soffrivo passivamente, come se l’ombra di qualche spirito più forte fosse addosso a me per oscurarmi e deprimermi. Ero oppressa come da una profezia, o piuttosto un senso del male che non potevo definire né capire. Tre sere dopo, mentre me ne stavo nella quiete primaverile che mi portò quasi all’insensibilità, la causa delle mie tristi fantasticherie improvvisamente si accese in me: si diffuse nel mio ricordo, come una tremenda e gigantesca ombra e mi fece quasi morire dal terrore. La memoria di un sogno mi balenò. Faccio ancora questo sogno e sempre alla vigilia di qualche grande disgrazia. È il mio genio, il mio demone. Cos’era? Un detto, un fatto, una scena rappresentata. Ascoltate attentamente, vi prego. C’era una vasta pianura inondata dalle acque di un fiume in piena, la strada era asciutta, stavo dalla parte di una collina al di sopra del livello della pianura e mi mantenevo lungo il sentiero che declinava, chiedendomi se non dovessi incontrare un ostacolo insormontabile. In lontananza davanti a me stavano portando un gregge di pecore. Sulla mia sinistra, dalla parte della collina, c’era una cerchia muraria in rovina, che includeva delle case diroccate di una città deserta. A qualche distanza si vedeva un orribile, grande, demolita dimora, per metà come un castello, ma senza torre, cadente, invasa dal muschio, isolata dall’inondazione su cui gettava una notturna ombra cupa. Lo scirocco soffiava e ricopriva il cielo di cirri e la nebbia lontana gravava bassa sulla pianura. Un pipistrello volava sopra di me. Poi accadeva una cosa, che non so dire adesso, di certo terribile. Eutanasia, c’è qualcosa in questo strano mondo che nessuno di noi comprende.

Eutanasia, vengo alla scena. Se ci riesco! Vidi tutto questo come l’avevo visto prima nei sogni. Gran Dio, chi sono io? Sono più fragile della prima foglia autunnale che cade. Sono sopraffatta.»

Si fermò a singhiozzare con forza, un orrore crescente scese su Eutanasia. A lungo rimasero in silenzio e poi Beatrice con voce bassa e sommessa continuò:

«Ero tornata a Firenze, avevo attraversato Arezzo. Lasciai il Trasimeno a nord, ero passata per Perugia, Foligno, Terni e stavo scendendo verso la pianura intorno a Roma. Il Tevere era straripato, tutta la campagna era sott’acqua, ma io procedevo, scendendo i monti, finché, passato Narni, giunsi a un colle che circonda la campagna [2] di Roma. C’era scirocco, la nebbia era sui colli per metà nascondeva il solitario Soratte; la acque bianche, fredde e orribili erano dappertutto; alla mia sinistra un muro alto e scuro circondava una città in rovina… guardai… in qualche modo vidi più in là sulla strada un gregge quasi perso alla distanza… il mio cervello soffriva, mi confondevo e m’ammalavo… quando i miei occhi spenti diedero un’occhiata ad una vecchia, larga, dilapidata casa isolata nell’inondazione… il sogno riapparve nella mia memoria. Gettai un grido selvaggio e caddi esanime per la strada.

Mi svegliai di nuovo, ma tutto era cambiato: ero in un letto, in un grande appartamento, le cui tappezzerie si muovevano e sospiravano nel vento… accanto a me c’erano due ragazzi che tenevano delle torce accese e il loro fumo nero mi arrivava agli occhi. Una vecchia mi strofinava le tempie… voltai il capo dalla luce delle torce e poi vidi subito il mio malvagio e potente nemico: era appoggiato al muro, mi osservava; i suoi occhi avevano una malia e, non sapendo cosa facevo, a malapena conscia che fosse un creatura umana, (per un po’ davvero mi apparve come solo un proseguimento del mio sogno) guardai il suo volto, che s’illuminò di un orgoglio trionfante… Provai una pena al cuore e caddi svenuta nel dolore.

Bene: ho promesso d’essere breve, e vado avanti dilungandomi sui particolari del mio racconto, fino a che le vostre belle guance non si sbiancano ancora di più per la paura. Ma io ho detto abbastanza e non vi dirò ciò che vi gelerebbe il sangue dall’orrore. Rimasi tre anni in questa casa e quello che vidi e sopportai è una storia per le orecchie sconsacrate degli infedeli, o per quelli che hanno perso l’umanità alla vista del sangue, e non per un cuore così tenero come il vostro. Mi ha cambiato e molto esser stata testimone di queste scene. Vi entrai giovane, ne uscii grigia, vecchia e appassita. Entrai innocente e, se l’innocenza consiste nell’ignoranza, ora sono rea di conoscere il crimine che pare solo i demoni possano escogitare.

Chi era colui che fu l’autore e meccanico di questi crimini? Aveva un nome umano, dicevano che la sua stirpe era umana. Potrebbe essere ancora un uomo? Di giorno lui era assente, tornava la notte, e i suoi tetti riecheggiavano i suoni della festa, misti a urla e imprecazioni. Era il carnevale dei diavoli e noi povere vittime eravamo trascinate…

Basta! Basta! Eutanasia, vi chiedete se io, che sono stata la schiava del Male incarnato, sono diventata una patarina?

Quel tempo è passato come un sogno. Spesso le mie facoltà erano esercitate al massimo, le mie energie vive, all’opera, in lotta… ma lottai contro la vittoria che non fu mai sconfitta. Ho visto le quiete stelle brillare e l’ombra della grata del salone sul pavimento illuminato dalla luna strisciare muta come l’avevo vista nell’infanzia, tanto che ero davvero nel vostro stesso mondo… ma quanto diverso! La vita degli animali era la stessa, il cane di famiglia mi conosceva ed era ubbidiente alla mia voce; il gatto ronfava sotto il sole… qual era l’influenza che incombeva da sola sulla mente umana, rendendola crudele, dura e demoniaca?

E chi fu l’autore di questi mali? C’era qualcosa in lui che poteva esser definito bello, ma era la bellezza della tigre, del fulmine, della cataratta che distrugge. L’obbedienza era in attesa dei suoi più piccoli gesti, perché lui non ne eseguiva nessuno che non comandasse. I suoi seguaci lo adoravano, ma come un selvaggio può adorare il dio del male. I suoi schiavi non osavano mormorare… I suoi occhi irradiavano un fuoco irresistibile, il suo sorriso era come la morte. Lo odiavo ed io sola tra le sue molte vittime non ero sottomessa. Lo maledii… lanciai sul suo capo maledizioni eloquenti e tumultuose, fino a trasformare il suo amore detestato in un odio meno orribile, meno ingiurioso. Eppure non fuggivo, le sue passioni bollenti e atroci divennero vendetta, impiegata per causare la mia miseria. Queste membra, mia Eutanasia, sono state torturate. Il freddo, la fame e la sete stavano lì come segugi a fare sempre la guardia alla mia vita vuota. Ma io vivo ancora per ricordare e maledire.

Ma, anche se la vita è sopravvissuta a queste lotte laceranti, la mia ragione è sprofondata sotto di loro! Impazzii. Oh! Carissima amica, vi auguro di non saper mai cosa ho sofferto, quando percepivo l’ombra di una falsa visione sopraffarmi e le mie agonie sgradevoli, quando le sbarre della mia cella, il tetto basso, l’aria sottile e nera sembravano scrutarmi con un senso soffocante di realtà in mezzo ai miei folli trasporti. Ho lottato per riavere la mia ragione e per proteggerla. Piangevo, pregavo… ma di nuovo ero sconfitta e il fuoco del mio cervello gettava una luce innaturale su ogni oggetto. Ma non ne devo parlare più. Mi sembra di sentire ancora la follia solo a ricordarla.

Vi ho detto che restai tre anni in questa casa infernale. Potete facilmente immaginare come lentamente i giorni e le notti si susseguissero, ognuno sommandosi alla mia età, ognuno aggiungendo una miseria in più alla mia lista. Ero ancora la schiava di lui, che era un uomo solo nella forma, ed ero schiava dei suoi compagni che, se non l’eguagliavano in malizia, erano comunque più vili, più infidi di lui. Alla fine i papali assediarono il castello. I molti crimini del suo proprietario avevano attirato su di lui l’odio del paese. Al momento in cui apparve tutti i contadini accorsero come in una crociata per annientare il loro oppressore. Fu annientato. Lo vidi morire, calmo, coraggioso e non pentito. Restai sola vicino al suo letto di abiti insanguinati ammucchiati per terra, su cui cadde quando entrò barcollando nella cella. Mi chiese una tazza d’acqua. Gli alzai il capo e gli diedi da bere. Mi disse: “Sento una nuova forza, starò presto meglio.” E, con queste parole morì.

Ero libera adesso. Mi alzai dal pavimento dov’ero in ginocchio e spostando dagli occhi i capelli macchiati del suo sangue, tagliai con il suo pugnale le lunghe, fradice ciocche e le gettai sul suo corpo. Mi vestii con gli abiti di uno dei paggi e mi nascosi, finché con la resa dei suoi seguaci fosse libera l’uscita dalla mia prigione. Com’ho detto prima, era più un grande palazzo che un castello, senza torri e merlature, ma era fortificato da numerosi fossi e altri ostacoli, apparentemente piccolo, eppure, difeso da frombolieri e arcieri, era quasi inespugnabile. Ma quando morì il capo, gli altri disertarono e i compagni delle sue rapine e dei suoi festini riempirono l’aria con lamenti deliranti. La fortezza fu presa e io scappai per i monti, i monti selvaggi… li cercavo come una casa dopo il mio lungo e doloroso imprigionamento.

Ero libera adesso. I lecci mi facevano ombra, le acque mormoravano accanto a me, i dolci venti mi sfioravano le guance. Sentivo una nuova vita. Ero più una smunta prigioniera, la vittima disperata dei crimini degli altri, l’inquilina delle mura scure e insanguinate di una casa che mi circondava dappertutto e spezzava il libero corso della mia salute anche nel sonno. Ero di nuovo Beatrice. Provavo ancora le sensazioni di gioia a lungo assenti: era un paradiso per me vedere le stelle del cielo, sciolte dalle grate della mia cella, camminare, riposare, pensare, parlare, senza interruzione e senza ascolto. Delirai dalla gioia. Abbracciavo i tronchi ruvidi dei vecchi alberi, come se fossero mie sorelle nella libertà e nel piacere… Raccoglievo nella mia mano l’acqua limpida della sorgente e la spargevo al vento… Mi gettavo a terra, baciavo le rocce, gridavo per il frenetico godimento. Libera! Libera! Potevo correre fino a che perdevo le forze. Potevo riposare su una riva muscosa, fino a che tornavano le energie. Sentivo l’ondeggiare dei rami, vedevo il volo degli uccelli, potevo per sempre invisibile giacere sull’erba della mia madre terra e potevo chiamare la natura di nuovo mia. Era autunno, e il sottobosco aveva riempito il terreno con le sue foglie secche. I corbezzoli, le castagne e altri frutti saziavano il mio appetito. Non sentivo bisogno, fatica. Le forme comuni di questo mondo sembravano ornate in grazie inusuali per salutare e festeggiare la mia nuova libertà ritrovata.

Per molti giorni vagai e penetrai le lande selvagge degli Abruzzi. Ma mi persi ancora: non sapevo che cosa mi privava della ragione in questo modo quando ne avevo più bisogno. Se era la gioia o il cambiamento improvviso, connesso a una sensazione troppo intensa di libertà, che mi faceva sentire come se compenetrassi tutta la natura, viva e senza limiti. Avevo ricordi, come se talvolta vedessi i boschi, la terra verde e il cielo blu, e udissi il rombo di una grande cascata che mi spruzzava con la sua acqua fredda: ma c’era un vuoto, come un sonno profondo, letargico e passarono molte settimane prima che mi svegliassi e tornassi alla realtà della vita.

Mi ritrovai stesa per terra in una caverna. Era notte e una lampada solitaria ardeva, appesa alla parete della grotta. Le ceneri di un fuoco mezzo spento brillavano in una rientranza e pochi utensili, che sembravano fatti per la preparazione del cibo, davano a questo luogo l’idea di un’abitazione umana. Era asciutta e arredata con poche panche e un tavolo su cui c’erano del pane e della frutta. Mi pareva d’esser diventata l’ospite della dimora di uno spirito e, con un senso strano, un po’ doloroso, un po’ piacevole, portai alle mie labbra una mela, che per il suo profumo e gusto mi poté assicurare che era terrena. Poi guardai ancora intorno in cerca dei miei simili. Trovai un passaggio stretto nella mia grotta che portava ad un ambiente interno molto più piccolo e molto basso. Per terra, su un letto di foglie stava un vecchio: i suoi capelli grigi erano finemente sparsi sulle venerabili tempie, la barba bianca, fluente e soffice, ricadeva sul petto. Anche nel sonno aveva un sorriso gentile di benevolenza. Mi inginocchiai accanto. Mi sembrava fosse il mio nobile padre, il signore Marsilio. Ma c’erano tracce più vistose di meditazione e affanno sulle gote cadenti e la fronte rugosa di questo vecchio.

Si svegliò: «Mia povera ragazza», disse, «cosa vuoi?»

«Vorrei sapere dove sono e che ci faccio qui?»

Le mie parole convinsero il mio buon protettore che il dolce sonno che le sue medicine mi avevano procurato avevano ristabilito il mio senno e, essendo l’alba, si alzò e aprì la porta della sua caverna. Era scavata sotto il fianco di una montagna, coperta da edera, viti selvagge e altre piante parassite, e riparata da lecci. Si apriva sul ciglio di una piccola spianata erbosa, con un muro ripido di roccia dietro e un precipizio davanti: la montagna in cui era inclusa era una delle molte dentro una valle irregolare. Da un buco sulla spianata potevo scorgere una massa d’acqua che cadeva con fragore tremendo, nascosta in seguito dalle difformità della montagna, e poi si vedeva un fiume torbido e rapido in fondo alla valle. Le parti basse della montagna erano ricoperte da uliveti, il cui colore verde mare contrastava con il cupo leccio e le foglie nuove di pochi castagni. Sentivo freddo e la montagna aveva appena iniziato ad essere toccata dal sole nascente. Pareva non ci fosse un sentiero che portasse o che partisse dalla spianata, ed era chiuso al mondo intero, sospeso sul lato di una montagna rocciosa.

Questa caverna per me è stata un ostello nei lunghi mesi invernali. Il vecchio mi aveva trovata a vagare tra le foreste, lamentandomi delle pesanti catene che mi legavano e dei torti e della reclusione che soffrivo. Lui, povero disgraziato, era un emarginato, un eretico, un patarino che si nascondeva nei boschi dalla furia dei preti che avrebbero voluto eliminarlo. Mi portò alla sua grotta, si prese cura di me come il più premuroso padre. Mi ridiede la ragione e anche allora non mi abbandonò. Viveva là del tutto solo, nessuno era al corrente del segreto del suo rifugio. La notte, camuffato, andava spesso a cercare cibo e ritornava alla pace e alla solitudine.

Condivisi la sua solitudine per molti mesi: all’alba usciva per godere dell’aria fresca e la vista del cielo e dei colli, finché l’apparire del primo uomo nella valle giù ci avvisava di rientrare. Nelle notti al chiaro di luna stavamo là e, mentre lei, signora della notte, si muoveva lentamente sopra di noi e le stelle brillavano intorno, noi parlavamo e nei nostri dialoghi sulla fede, sul bene e sul potere mi si rivelarono le sue dottrine, che prima mi erano oscure, e da lui appresi quel credo da voi detestato, ma che, credetemi, ha molto da dire in suo favore.

Guardate, cara Eutanasia, la luce del giorno diminuisce il barlume della vostra lampada e mi ricorda come ho dimenticato spesso la mia promessa d’essere breve nel mio racconto. Adesso è quasi finito. Io amai subito e tanto il mio gentile guardiano, era il più gentile e amabile dei mortali, saggio come un greco antico, impavido ed indipendente. È morto per le torture: i segugi lo cacciarono dal suo studio, legarono le sue vecchie membra, lo trascinarono al palo. Morì senza paura, almeno vorrei credere quasi senza dolore. Possono essere queste cose, oh, mia protettrice, le migliori per gli uomini? Sarebbe davvero appropriato morire così e ch’io viva e viva ancora.

Sarebbe noioso raccontare com’ho passato tutto questo, quanto piansi e pregai, come scappai e, mezza impazzita da questa miseria, maledissi il creato e le sue leggi crudeli. Il resto è tutto poco interessante. Tornai per portare i lasciti di questo vecchio a sua figlia a Genova, quando fui catturata in questa città dagli inquisitori e gettata in carcere… Il resto lo sapete.

E adesso, carissima amica, lasciatemi. Il racconto degli eventi della mia vita passata mi fa guardare avanti al futuro. Non basta alzarsi ogni mattina e andare a letto la sera per dormire. Vorrei guardare cosa posso diventare con fermezza. Non credo che in tutto il mondo ci sia una creatura così miserabile come me, ma non ho ancora svuotato la coppa della vita, resta ancora qualcosa da fare.

Ancora una parola, mia Eutanasia, su Lui che è la legge della mia vita e che ancora non oso dire ciò che credevo di dire. Delle volte gli scrivete di me, no? Lo potete fare ancora, io non vi controllerò. Lui è davvero il padrone del mio fato e sarebbe bene che conoscesse tutto quello che mi riguarda.»

La povera Beatrice allora pianse amaramente, ma fece cenno con la mano che desiderava restare sola, ed Eutanasia uscì. Non aveva dormito per tutta la notte e non ne sentiva la voglia. Le ultime parole di Beatrice sembravano insinuare che lei desiderava che Castruccio conoscesse la sua storia. Così sedette, scrisse un riassunto e i suoi occhi si riempivano spesso di lacrime, mentre riportava le miserie straordinarie della sventurata profetessa.



[1] Geremia 9,1

[2] In italiano nel testo.



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