“Valperga”– Mary Shelley XXXI

Creato il 07 aprile 2012 da Marvigar4

Mary Shelley (1797-1851)

VALPERGA

o

La vita e le avventure di Castruccio, Principe di Lucca

Traduzione integrale di Marco Vignolo Gargini dall’originale in inglese Valperga; or the Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca

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Capitolo 31

Beatrice decide di prendere il velo. Eutanasia visita Firenze.

Il giorno dopo Beatrice sembrava molto più calma. Eutanasia aveva temuto che riportare alla memoria i dolori passati potesse risvegliare la frenesia di cui aveva sofferto in precedenza. Ma non fu così. Desiderava tanto avere fiducia, il suo cuore era troppo grande per tenere segreta tutta l’enorme riserva d’infelicità di cui era conscia, ma, avendo ora comunicato i particolari a un’altra persona si sentiva piuttosto sollevata. Lei ed Eutanasia passeggiavano nel giardino coperto d’erbacce del palazzo e, appena Beatrice le prese la mano, dopo un silenzio di pochi minuti disse:

«Non voglio ficcare il naso nei segreti del mio cuore, eppure sono sempre costretta a farlo. Lo paragonerei a questo giardino incolto, ma qui tutto è calmo e la vita, brutta o bella che sia, trascorre quieta: nella mia anima tutto stride, un pensiero cozza contro l’altro e crea un contrasto orrendo. Talvolta questo cessa per un momento e vorrei che quello stato di pace durasse per sempre: ma, uno schianto! viene da una mano più potente che distrugge tutta l’armonia e la melodia, ahimè!, che forse sono nel vostro cuore gentile. Nel mio il loro ricordo è ormai estinto.»

«Vi dirò com’è, mia dolce Beatrice», rispose Eutanasia, scherzosamente. «Vi dirò che cos’è la mente umana e imparerete a regolare i suoi vari poteri. L’anima umana, cara ragazza, è una grande caverna in cui stanno e vivono molte facoltà. Per prima, la Consapevolezza è una sentinella all’ingresso e accanto attendono Gioia e Dolore, Amore e Odio, e tutte le sensazioni fulminee che con i loro mezzi riescono ad entrare nei nostri cuori.

Nel vestibolo di questa caverna, ancora illuminata dalla luce del giorno, siedono la Memoria con gli occhi bendati, l’austero Giudizio che le regge la bilancia, e la Ragione in abito avvocatizio. La Speranza e la Paura abitano là, mano nella mano, gemelle; la prima (la maggiore per qualche breve momento, d’aspetto sanguigno, passo fermo, occhi che guardano avanti ansiosi e labbra scostate in trepida attesa) spesso s’affretta a prendere il suo posto accanto alla Gioia, se non fosse trattenuta dalla Paura, la più giovane che sovente, pallida e tremante, vorrebbe fuggire, se la Speranza non le tenesse la mano e la sostenesse; i suoi occhi si voltano sempre per attirare la Memoria, e si può vedere il suo cuore battere nel suo scuro abito. Abitano là anche la Religione e la Carità, o invece talvolta le loro contraffazioni o opposti, Ipocrisia, Avarizia e Crudeltà.

Dentro, esclusa dalla luce del giorno, siede la Coscienza, che può davvero vedere nel buio, come un gufo. Le sue tempie sono cerchiate da un diadema di spine e nella mano ha una frusta, anche se il suo abito è regale e il volto, pur severo, è maestoso.

Ma al di là di tutto questo c’è una grotta interna, difficile da accedere, rude, strana e pericolosa. Pochi la visitano e spesso è arida e vuota, però qualche volta (come le caverne di cui leggiamo che si aprono nel cuore delle montagne, ed esistono nella bellezza, ignote e neglette) quest’ultimo recesso è decorato con i più bizzarri e mirabili emblemi… stalattiti d’incanto superiore, depositi di valore inimmaginabile e suoni argentini, che il gocciolio o l’aria circolante fa sentire tra i delicati cristalli. Ma qui trovano dimora anche i gufi, i pipistrelli, le vipere, gli scorpioni e altri orribili rettili. Questo recesso non riceve la luce del giorno e la Coscienza non ha alcun’autorità qui. Talora è illuminata da una luce innata e allora gli uccelli notturni si ritirano e i rettili non strisciano dalle loro tane. Ma, se questa luce non esiste, oh!, che si guardino bene quelli che vogliono esplorare questa grotta. È qui che i malvagi trovano le scuse per i loro crimini, che prendono la frusta dalla mano della Coscienza e affilano la sua corona; è qui che l’eretico audace apprende strani segreti. Questa è la casa del folle, quando tutti i poteri abbandonano il vestibolo e lui, non avendo luce, fa oscure, fantastiche combinazioni e vive tra loro. Da qui c’è un sentiero breve che porta all’inferno e gli spiriti del male passano e ripassano non ripresi, escogitando le loro tentazioni.

Ma è qui che vivono anche la Poesia e l’Immaginazione; è qui che abitano l’eroismo, l’immolazione e le più alte virtù, e qui trovano conoscenze di gran lunga migliori di tutte le lezioni del mondo; e qui dimora la dolce ricompensa di tutti i nostri sforzi, l’Appagamento della Mente, che coronato di rose e con uno scettro avvolto da fiori governa, al posto della Coscienza, quelli che sono ammessi al suo felice dominio.»

Eutanasia parlò così, cercando di far nascere nella mente di Beatrice idee più serene, ma invano. La povera ragazza ascoltava e quando la sua amica ebbe finito alzò gli occhi pieni di lacrime. «Non parlatemi più in questo tono», disse, «ogni vostra parola mi dice soltanto e in modo troppo chiaro quanto io sia disgraziata. Non esiste per me l’appagamento della mente, Né la bellezza del pensiero o la poesia, e se l’immaginazione vive è come un tiranno, armato di fuoco e frecce velenose che mi fa disperare.»

Un fiume di lacrime seguì queste parole e nessuna carezza o consolazione riuscì a calmarla.

Dopo poco Eutanasia ricevette una risposta da Castruccio alla lettera in cui lei aveva riassunto l’infelice storia di Beatrice. Lui deplorava le sventure che a causa sua avevano oppresso la povera profetessa. «So», continuava, «che per lei non c’è rifugio o scelta se non nel vostro affetto protettivo. Se lei fosse come l’ho conosciuta, i suoi sentimenti potrebbero suggerirle il convento come ultima spiaggia per una così offesa e misera com’è lei. Ma è una patarina e finché non s’è redenta dalla sua odiosa eresia è fuori dai conforti della nostra religione.»

Pensò Eutanasia: «E lui scrive con un distacco del genere di questo tempio in rovina che un tempo era bello e splendido! Ah! Non mi meraviglio che getti via i miei affetti dato che non può avere alcuna compassione più profonda per Beatrice. Lei non interferisce con la sua ambizione o i suoi piani, quindi è solo la sua durezza di cuore che gli detta i suoi freddi consigli.»

In quel momento entrò Beatrice. Al solo vedere quella bella creatura (perché era ancora bella nonostante la disgrazia e la follia) c’era da scorgere tutto ciò che può essere immaginato di dolce e bello in una donna, dolce e bello anche se selvaggio a tal punto che, pur guardandola con piacere, provavi paura. La fronte bassa, il cui candore era macchiato dal sole, ancora brillava sotto i suoi capelli neri, gli occhi, che avevano ripreso un po’ della loro antica cortesia, riposavano come fossero sotto i loro pesanti coperchi. Lo sguardo adirato, che era un lampo, il sorriso, che era come un paradiso, tutto la elevava al di sopra delle altre creature. Sembrava l’incarnazione di qualche strano spirito planetario che, rivestito di carne, si sentiva a disagio nei suoi legami e non vedeva l’ora d’esser portato via sulle ali del suo volere.

Parlava con agitazione: «Non arrossite, amica mia, e non cercate di nascondere quella carta. So cos’è e, se avete a cuore la mia pace mentale, se mi amate, se v’è caro il benessere della mia anima quasi persa, fatemi vedere quello scritto.»

«Non c’è conforto per voi lì», rispose Eutanasia con tristezza.

«No, solo io posso giudicarlo. Guardate, io m’inginocchio, Eutanasia. E voi me lo negate? Vi prego di darmi quella carta.»

«Mia Beatrice, non torturatemi così: se non ve la mostro… Non importa: eccola, leggetela, e saprete chi è Castruccio.»

Beatrice la lesse con tranquillità e poi, ripiegandola, disse serena; «Non ci vedo niente di male, e la sua volontà sarà fatta. È una strana coincidenza che abbia già deciso ciò che lui consiglia, e confido che sarà contento di sapere che la profetessa errante cerca ancora la sua antica via di religione e pace. Debbo spiegarvi queste cose, mia Eutanasia. So che volete spostarvi a Firenze: io non potrei lasciar mai questa città. Io non lo rivedrò mai, non lo sentirò parlare, non sarò niente per lui, ma vivere nelle stesse mura, respirare l’aria del cielo che forse lo ha lambito, è una gioia a cui io non rinuncerei mai e poi mai. La mia decisione è presa: ma voi morrete qui e troverete cari amici là dove lui non può mai venire. Non vorrei trattenervi. Io ho scelto cosa sarà del mio futuro destino e l’ho tutto programmato. Il convento più vicino al suo palazzo è uno di quelli gestiti dalle suore dedite a San Michele. Ho già mandato a chiamare il confessore di quel convento, grazie a lui sarò in pace con la chiesa e, quando lui mi crederà abbastanza pura per abitare quelle sante mura, entrerò come novizia e poi sarò una suora di quell’ordine. Vi prego, carissima, di restare finché non avrò preso i voti, quando, tutta consacrata al cielo, sentirò meno una separazione terrena.»

Parlò con voce affrettata, incerta e s’interruppe singhiozzando. Si gettò nelle braccia di Eutanasia ed entrambe piansero. «Oh! no, infelice, ma cara, cara Beatrice, voi non mi lascerete affatto. Io non posso essere utile al mondo per me e per gli altri se non per consolarvi, per insegnarvi, quanto lo permetteranno le mie povere capacità, la via più dolce per il cielo. Questi saranno i miei compiti. Voi non mi lascerete mai.»

Beatrice si svincolò dalle braccia d’Eutanasia e alzando gli occhi con quello sguardo d’ispirazione che pareva cercare e trovare l’opposto dei poteri più alti, disse: «Vi ringrazio dal profondo del cuore e che dio vi benedica quanto meritate, divina Eutanasia. Ma sono decisa. Ahimè! La mia mente è come l’acqua, ora scagliata contro le onde dai venti del caso, ora freddamente cupa sotto un cielo basso, ma mai irradiata dal sole che dà vita. E questo stato deperibile è nella mia anima come un debole promontorio, battuto dal temporale, contro cui il libeccio spinge il mare che corrode. Morirò presto: ma che la mia morte sia quella del santo e questa non può essere se non nella solitudine di un convento: è il termine del mio destino. Non opponetevi più: lui non s’è pronunciato? Ed io gli obbedirò come se fosse il mio re, il mio signore, il mio… non parlate, non contradditemi, vedete che essere fragile sono.»

E adesso Beatrice, questa patarina, che poco prima narrava con vero odio la storia di tutte le miserie che aveva patito e malediva il suo autore, diventò docile alla voce del sacerdote come un bimbo di sette anni. Il confessore che aveva mandato a chiamare non ebbe un compito difficile nel far accogliere i suoi precetti dalla mente della ragazza, e la preghiera e la penitenza divennero di nuovo per lei la regola quotidiana. Non usciva mai, restava chiusa nel palazzo d’Eutanasia e con il rosario in mano, i suoi occhi folli tornarono rivolti al cielo, cercava la pace, e alla fine trovò un conforto da quegli orribili sentimenti che finora l’avevano tormentata.

Nel frattempo ‘la madre dei mesi’ era calata molte volte e riempiva di nuovo il suo corno, e l’estate con il suo scrigno di cieli azzurri, fiori odorosi, insetti felici e uccelli dal bel canto, invitava ancora il mondo ad essere lieto. Il contadino preparava il terreno per la trebbiatura, scegliendo un luogo soleggiato che aveva liberato con cura dall’erba e, versandoci acqua sopra, lo batteva finché fosse duro come quello di un granaio del nord. Gli aratri, la cui rozza abilità Virgilio descrive, stavano fermi accanto alle colture ora ricolme di grano alto: le primule erano appassite, ma il profumo del mirto sui monti era ovunque. Le numerose lucciole, innamorate del frumento in erba, erano un altro cielo di stelle brillanti sul terreno verde o, saettanti tra gli oliveti, formavano una bella immagine della dolce notte italiana. I buoi dal dolce sguardo riposavano nelle stalle e i fiori dei castagni e degli ulivi lasciavano il posto ai frutti giovani appena formati. Questa è la stagione che l’uomo ha sempre scelto per la distruzione dei suoi simili, per far scorrere sangue nei rivi, per far risuonare l’aria piena del canto degli uccelli anche con i gemiti e le urla dei moribondi, e imbrattare il cielo azzurro e sereno con l’umido che il cadavere insepolto esala; l’inverno potrebbe essere il compagno adatto di Bellona, ma, no, fa allungare il collo dell’estate, che con piacere se ne sbarazza, come ci si potrebbe ben aspettare da una sposa così irascibile.

Castruccio ora dominava tutto il territorio di Lucca e molte altre province circostanti, pacificate e obbedienti. Ma i suoi occhi erano sempre rivolti a Firenze e il suo desiderio più ardente era di umiliare, se non far propria, quella città. Fece un altro passo in quel senso durante l’estate. L’abate di Pacciana ebbe con il consenso popolare ogni potere a Pistoia, lo usava in nome di Castruccio, inviando gli ambasciatori fiorentini e rinunciando a favore del principe di Lucca a molte roccaforti e torri del territorio pistoiese. Castruccio s’era impossessato della fortezza sul monte che dominava la città, dove si librava come un falco sulla sua preda, pronto a balzare, aspettando solo il momento destinato.

Durante l’estate nutrì anche qualche speranza di prendere Pisa. Là il capo del governo, che governava con l’affetto di tutta la gente, offese subito i suoi padroni. Fu decapitato e le varie fazioni in città in armi iniziarono una guerra sanguinosa. In questo momento Castruccio apparve col suo esercito sul monte di San Giuliano: questo spettacolo calmò i combattenti, che elessero un nuovo signore e piegarono i propri poteri per resistere al comune nemico. Castruccio si ritirò a Lucca, ma fu così commosso dalla caduta del capo dei pisani che, deciso a non fidarsi più come aveva fatto finora dell’affetto della sua gente, eresse lo stesso anno dentro le mura della sua città una grande fortezza, chiamata Agosta. Non risparmiò spese e lavoro e fu da tutti considerata come l’opera più imponente dell’epoca: era posta in quella parte della città che guarda a Pisa, circondata da un muro alto o robusto e fortificata da trenta torri. Gli abitanti di un intero quartiere persero le loro case per far spazio a questo nuovo simbolo della tirannia, e qui lui, la famiglia e i seguaci vivevano in orgogliosa sicurezza.

Verso la fine del mese di giugno Eutanasia, che fin qui s’era occupata di star dietro ai dolori di Beatrice, ebbe la notizia che uno dei suoi più importanti amici di Firenze era gravemente malato e desiderava tantissimo rivederla. Lei lo riferì alla sua ospite e Beatrice, sempre instabile, si trovava allora in uno stato d’animo docile. Aveva ascoltato a lungo con fede profonda e sincera le lezioni di Padre Lanfranco, il confessore del convento dove stava per entrare. Sembrava che questo vecchio venisse incontro prudentemente e saggiamente al suo intelletto disturbato; poiché lei sembrava in pace con sé e gli altri: se ora non piangeva, non accusava, come in passato, Colui che aveva creato la fonte delle sue lacrime.

«Andate, cara amica», disse ad Eutanasia, «andate, ma tornate. Ricordate, io ho bisogno della vostra compagnia finché non prenderò il velo e poi sarete libera. Ho l’impressione che adesso mi piacerebbe essere lasciata in totale solitudine, potrei unirmi più intensamente nello spirito con le speranze e i donni celesti che ricevo. Andate, spirito benedetto dal Bene, angelo custode della povera Beatrice, povera in tutto meno che nella gratitudine… non vedrete la vostra opera rovinata al ritorno, mi troverete ancora bene, un’allieva obbediente come sono stata ora, credo per più di un mese.»

Eutanasia la lasciò con angoscia e con un presentimento triste, ma, assumendo in pieno l’aspetto della pace, si sentiva vincolata ad obbedire alla voce dell’amicizia e a vedere, forse per l’ultima volta, un uomo che era stato l’amico e il compagno della sua prima giovinezza, e partì per Firenze. C’erano in lei troppi ricordi legati alla Val di Nievole per permetterle di scegliere quella strada. Inoltre l’esercito di Castruccio occupava i passi e temeva d’incontrarlo. Di conseguenza fece il giro intorno a Pisa. Niente poteva essere più bello della campagna. Le basse colline pisane la ricoprivano di castagneti e uliveti, punteggiata con le macchie più scure dei pini e dei sugheri (mentre, tra tutti, i cipressi innalzavano le loro guglie sottili), e, circondata da castelli e torri, la confinavano in una pianura di varia fertilità. Stavano falciando il grano e la canzone dei mietitori batteva il tempo come fosse il suono delle cicale negli olivi e il cinguettio degli uccelli. La pace, per la prima volta dopo tanti anni, regnava cupa con i venti spiegati sulla terra e sotto la loro benedetta ombra sprizzava gioia e abbondanza.

Eutanasia arrivò a Firenze. Trovò il suo amico ristabilito, tutti i suoi conoscenti che avevano atteso con trepidazione il suo arrivo rimasero malissimo a sapere che la sua intenzione era di tornare a Lucca. D’altronde lei amava e compativa troppo Beatrice per mancare a uno solo dei doveri d’amicizia verso di lei. Dopo una permanenza di un mese nella sua amata città natale, ripartì da Firenze. Nel frattempo cos’era successo alla sventurata profetessa?



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