Puntata 1 – anno 3, 2 novembre 2013
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Col cinema viene condotta, da varie parti, una lotta silenziosa ma gigantesca, che mette in giuoco valori psicologici morali e materiali sconosciuti ai tecnici della guerra delle armi. Combattere un tipo di cinema straniero che nuoccia all’educazione e all’educazione delle nostre masse, semplicemente con la critica, è ridicolo. Ai films bisogna contrapporre i films.[1]
Queste le parole di Carlo Lizzani su “Il Politecnico”, rivista di politica e cultura dell’immediato secondo dopoguerra. Rivista che diverrà celebre per il diverbio tra il proprio direttore, Elio Vittorini, e il segretario del PCI Palmiro Togliatti. Questo dibattito fu il risultato di visioni contrastanti tra il ruolo della cultura e del lavoro culturale, di fronte ad un’Italia da ricostruire, sia materialmente che moralmente. Ma perché un segretario di partito si trova a discutere di letteratura? E cosa c’entra il PCI col cinema?
Un fotogramma dal film “Roma città aperta”, 1945
La costruzione del partito comunista dopo la seconda guerra mondiale non passa soltanto attraverso il rapporto con la classe operaia e nello sviluppo di una politica marxista, comunque sempre centrale, ma anche nel rapporto con una classe intellettuale e nella formulazione di un’estetica e di un preciso lavoro culturale. Molto si deve alla commistione operata da Togliatti di tematiche marxiste ed istanze gramsciane, per cui strutture economiche e le sovrastrutture culturali sono fortemente legate.
Gli anni 1944-1948 sono gli anni in cui il Partito comunista si rinnova anche a partire dalla propria identità culturale e letteraria: un’idea di estetica nazional-popolare che riprende le tematiche del verismo, la critica letteraria di De Sanctis e la letteratura americana sociale degli anni Trenta.
Il cinema neorealista riesce ad essere il corrispettivo sullo schermo di queste tre visioni, in modo più o meno voluto. Non solo: i protagonisti dei film erano proprio quelle classi subalterne che ritroviamo negli scritti di Gramsci, così da avvicinare la macchina da presa alla realtà sociale.
Eppure, i registi e gli sceneggiatori neorealisti, provenivano tutti da un ambiente fascista: chi dai Cineguf ovvero Gruppi Universitari Fascisti di Cinema, chi dalle colonne di Cinema, la rivista diretta da Vittorio Mussolini, chi dal Centro Sperimentale di Roma, vera e propria creazione del regime.
Ma, come ricorda Lizzani:
De Santis e Puccini erano in contatto col Partito comunista clandestino attraverso Alicata, Ingrao, Bufalini. […] Alcune copie della “Storia della rivoluzione russa” di Trotzky e delle “Questioni del leninismo” di Stalin uscirono dalla redazione di “Cinema” dove erano nascoste sotto l’inconsapevole protezione di Vittorio Mussolini […] e migrarono verso la sede del Cineguf a Palazzo Braschi, sede del Fascio romano e ovviamente per una sorta di parallelismo […] centro di aggregazione di giovani intellettuali che andavano scoprendo l’antifascismo e il marxismo.[2]
La caduta del regime comporta un particolare risveglio culturale, a metà tra il senso di dovere e di liberazione, soprattutto da parte del ceto intellettuale colpevole, diversamente dagli strati popolari, di un esplicito sostegno al fascismo.
Dal punto di vista cinematografico, in ogni caso, il neorealismo inizia ad affacciarsi già nel 1943, con “Ossessione” di Luchino Visconti. Alla sceneggiatura collabora anche Mario Alicata, all’epoca redattore de “l’Unità” clandestina. Alicata sarà uno dei maggiori referenti culturali del PCI, per la sua vicinanza alle idee di Togliatti. Il connubio tra comunismo e neorealismo, quindi, è quello forse più riuscito in campo culturale.
Fotogramma tratto da “Ossessione” di Luchino Visconti, 1943
Per quanto i film neorealisti siano effettivamente pochi rispetto alla produzione complessiva italiana, ogni autore o regista di sinistra passa per il neorealismo, ed ogni autore o regista diventa di sinistra. Da questo momento, si stabilisce un’equazione particolare che segnerà per molti anni la cultura italiana: cinema = sinistra.
Il PC aiuta sia intellettualmente che materialmente: dando i fondi a Visconti per creare il film ”La terra trema” o mettendo a disposizione di De Santis e Lizzani un redattore dell’Unità di Torino per pensare meglio la storia di ”Riso amaro” (quel redattore sarà Raf Vallone).
Certo è che il conservatorismo e le censure della DC non aiutarono a contrapporre una cultura centrista a quella del PCI. Anzi Mario Scelba inventa il neologismo “culturame” e solo dagli anni Cinquanta i democristiani prenderanno il monopolio dello spazio televisivo. Gli anni d’oro del neorealismo (dal 1948 al 1952) e poi tutti gli anni Cinquanta saranno gli anni di un attacco censorio senza precedenti: uno fra tutti la denuncia in Parlamento del film “Umberto D” da parte di Andreotti oppure il taglio di intere scene di un documentario (“I fatti di Modena”) sulla sparatoria che lasciò a terra 6 operai in sciopero alle Fonderie riunite.
Lo schieramento di larghissima parte del ceto intellettuale a favore del PCI, e della sinistra in generale, era diventato palese qualche anno prima, nel 1948, in vista delle elezioni. All’interno del Fronte delle sinistre, alleanza elettorale tra comunisti, socialisti e indipendenti, si crea un comitato di coordinamento chiamato l’”Alleanza per la cultura” che aveva lo scopo di difendere la produzione culturale italiana di fronte ai monopoli capitalistici e alla sempre più stretta alleanza tra Italia e Stati Uniti. La paura era che il vorace mercato culturale nordamericano (molto più sviluppato del nostro) avrebbe potuto mettere fine alle iniziative nazionali. Non bisogna dimenticare, comunque, che la guerra tra superpotenze passava anche attraverso una guerra culturale.
Il cinema – in quanto arte popolare e di propaganda – riveste un ruolo di primo piano, oltre ad essere un mercato industriale di altissimo profitto per le majors hollywoodiane. Con la contrapposizione dei due blocchi, però, anche il PCI si estremizza: dall’URSS arriva l’eco del realismo socialista e dello spirito di Zdanov. Le poetiche accettate diventano più un’etichetta che non una vera e propria ricerca culturale, le avanguardie vengono viste con sospetto e anzi rigettate. Il rapporto con la produzione culturale diventa un’opera di difesa del pensiero marxista tout court, ed il neorealismo stesso diventa un simbolo senza più reale rapporto con i gusti e i bisogni del pubblico o degli autori. Una specie di censura interna che si può in parte riconoscere nel dibattito de “Il Politecnico” del 1947, dove Togliatti ammoniva Vittorini di stare ricercando la novità in sé e per sé, insomma un estetismo fine a se stesso.
Al di là di tutto, la ricerca culturale dell’Italia del secondo dopoguerra si può dire ricca di ispirazioni, tentativi ed errori. Possibile anche grazie alla ricerca e alla creazione di strutture culturali apposite. Malgrado le difficoltà della ricostruzione politica, economica e sociale, il ruolo della cultura non era messo in secondo piano, anzi era parte attiva del processo di rinnovamento.
Ricordando le parole di Carlo Lizzani, che ci ha lasciato questo ottobre, ci si muoveva «in ambito nazional-pattriottico, umanitario piuttosto che rigorosamente classista ma dove serpeggia, fortissima, una caparbia volontà di cambiamento, e di “riforme”, curiosamente commista […] a tensioni e impennate verso l’utopia».[3]
E con queste riflessioni vi salutiamo e vi invitiamo a visitare il sito www.casoesse.org e… alla prossima puntata!
Una serie di scene tratte dal film La vita agra di Carlo Lizzani (1964):
Approfondimenti
- Nello Ajello, Intellettuali e PCI: 1944-1958, Roma-Bari: Laterza, 1979
- Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano dal 1945 agli anni ottanta, Roma: Editori riuniti, 1982
- Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti: 1935-1959, Milano: Feltrinelli, 1979
- Goffredo Fofi, Lo spettacolo e il pubblico, in Profili dell’Italia repubblicana, Roma: Editori riuniti, 1985
- Stephen Gundle, I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca: la sfida della cultura di massa, 1943-1991, Firenze: Giunti, 1995
- Nicola Tranfaglia (a cura di), Il 1948 in Italia: la storia e i film, Scandicci: La nuova Italia, 1991
- Carlo Lizzani, L’Italia deve avere il suo cinema, «Il Politecnico», n. 3, 13 ottobre 1945↵
- Carlo Lizzani, Introduzione a “Riso amaro”, Roma: Officina, 1978, pp. 20-21↵
- C. Lizzani, Introduzione a “Riso amaro”, cit, p. 51↵
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